venerdì 27 luglio 2012

La valutazione del danno biologico psichico: la consulenza tecnica dello psicologo




La consulenza tecnica dello psicologo è sempre più centrale, oggi, nella valutazione, a scopo risarcitorio, degli aspetti psichici del danno biologico.
Negli ultimi decenni, in Italia, la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo ha ricevuto importanti riconoscimenti in dottrina e in giurisprudenza. Dalle pronunce della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale (Corte Cost. sent. n. 184/1986, Cassazione Civile sent. n. 8827 e 8828 del 2003), emerge chiaramente come il diritto alla salute fisica e psichica e quello alla piena realizzazione della persona, nei vari ambiti in cui la vita si esplica, siano irrinunciabili.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 184 del 1986 ha riconosciuto la risarcibilità del danno biologico, inteso come lesione alla somma di funzioni non solo biologiche, ma anche socio-culturali ed estetiche; tale concetto comprende anche il danno psichico, con le ricadute negative che da esso possono derivare sui molteplici aspetti della persona.
La giurisprudenza ha posto quindi l’attenzione sulla necessità che all’interno dell’accertamento medico-legale del danno biologico non si trascuri la componente psichica, richiamando all’esigenza di valutare oltre alla sussistenza di danni biologici di tipo fisico anche eventuali lesioni riconoscibili in quanto manifestazioni psicopatologiche clinicamente significative, rilevabili con un adeguato esame diagnostico.
Inoltre, in seguito alle sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione sul danno esistenziale (n. 26972 e n. 26973 del 2008), ogni pregiudizio a carattere esistenziale relativo agli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, personali e soggettivi non comuni a tutti, dovrà essere accertato in termini psicologico-legali e non medico-legali. Infatti, la Cassazione afferma che il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza e che deve essere allegato e provato. A questo punto assumono ancora di più rilevanza le allegazioni, gli accertamenti medico-legali e quelli psicologico-forensi, sulla base dei quali il giudice possa accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato.
Sempre più si pone, pertanto, in rilievo, la centralità della consulenza tecnica dello psicologo per l’accertamento del danno psichico e per la valutazione dell’incidenza di tale danno sulla validità totale della persona che ha subito la lesione.
Lo psicologo chiamato a valutare l’eventuale presenza di un danno psichico deve redigere una relazione tecnica a corredo della documentazione indispensabile in sede risarcitoria, che integri la valutazione medico-legale.
In cosa consiste la valutazione
Lo psicologo, attraverso il colloquio clinico e la somministrazione di test psicodiagnostici, valuta:

  1. l’esistenza (o meno) del danno biologico di natura psichica;
  2. la diagnosi del tipo di danno dal punto di vista clinico;
  3. il nesso causale (o meno) tra evento scatenante e conseguenze e la qualifica di tale nesso (causale o concausale);
  4. la dimensione temporale: cioè se si tratti di un danno temporaneo e/o permanente;
  5. l’entità del danno subito e la sua espressione in termini quantitativi, riferita ad una percentuale di invalidità riportata dal soggetto rispetto ad un totale ideale di 100% di salute psichica, in modo da dare un parametro sul quale calcolare la liquidazione;
  6. la situazione del soggetto in termini qualitativi, in modo da dare al giudice una cornice più ampia che gli permetta, qualora adotti un sistema liquidatorio a punti flessibili o equitativo, di prendere in considerazione in modo più specifico ed adeguato il singolo caso;
  7. l’esclusione di una simulazione;
  8. la relazione tra danno subito ed altre eventuali voci di risarcimento (danno alla capacità lavorativa specifica, ecc.) e riferimento esplicito alla eventuale necessità e utilità di cure psicoterapeutiche da considerare ai fini del danno emergente;
  9. la presenza di un eventuale danno non patrimoniale con pregiudizio esistenziale e relativa quantificazione.


A conclusione della valutazione lo psicologo redige un’accurata relazione in cui vengono affrontati i seguenti punti:
  1. Incarico e quesito: a che titolo si è stati incaricati e da chi, dati del soggetto sottoposto a valutazione;
  2. Calendario delle operazioni: calendario dei colloqui e dei test
  3. Evento e analisi della documentazione: riassunto dell’evento, esame degli atti e dell’eventuale documentazione clinica;
  4. Fase clinico-diagnostica: anamnesi, sintomatologia lamentata e atteggiamento durante la valutazione, esposizione dei dati clinici emersi dai colloqui e dai test, diagnosi in termini clinici;
  5. Valutazione del danno: traduzione delle valutazioni cliniche rispetto ai punti chiave da analizzare, esistenza del danno, nesso causale, dimensione temporale, esclusione di simulazione;
  6. Conclusioni e quantificazione: entità del danno e quantificazione.


Gli ambiti in cui può essere chiesto un risarcimento per danno biologico psichico sono diversi, tra i quali:
  • Infortunistica Stradale
  • Infortunistica professionale
  • Danno da colpa professionale
  • Danno da wrongful life
  • Danno da Mobbing lavorativo, familiare e coniugale
  • Danno da Demansionamento
  • Danno ambientale
  • Tutela della Privacy – Bioetica
  • Maltrattamento e abuso su donne o minori
  • Danno alla Reputazione

Dott.ssa Suhail Zonza
Psicologa Psicoterapeuta 
Esperta in Psicologia Giuridica e Psicodiagnosi

sabato 23 giugno 2012

La terapia occupazionale e le strategie visive nelle disabilità intellettive e nei DGS



Lo scopo che ci poniamo, con qualsiasi bambino, è quello del raggiungimento della sua autonomia nelle varie aree del comportamento adattivo. Crescere significa anche in tutte le culture, maturare abilità che consentano al bambino di separarsi sia emotivamente, sia operativamente  dall’adulto ed essere partecipe attivo e responsabile del suo contesto di vita. Ciò vale anche nel caso del bambino disabile, il quale potrà maturare livelli di autonomia, dipendenti, da un lato dalle sue specifiche menomazioni e abilità, dall’altro dalla presenza nel suo contesto di facilitatori o barriere. Lo stesso ICF (il principale strumento di classificazione internazionale del funzionamento e della disabilità) sottolinea l’importanza dell’adattamento dell’ambiente come fattore essenziale per favorire lo sviluppo delle abilità e più in generale dell’autonomia. In questa idea, il ruolo delle strategie visive rappresentano a tutti gli effetti dei facilitatori in grado di favorire lo sviluppo dell’autonomia e con essa la partecipazione del soggetto.
È fondamentale, nell’utilizzo delle strategie visive, un lavoro mirato a casa, ed è altrettanto fondamentale che questo vada poi ad ampliarsi  a tutti i contesti in cui il bambino partecipa, compresa ovviamente la scuola. È necessario per comprende il significato delle strategie visive, fare una premessa di carattere metodologico a partire dal quale l’uso delle immagini assume significato.
Il terapista occupazionale, durante l’insegnamento delle varie fasi di un’attività, potrà offrire livelli di aiuto diversi (prompting) a seconda delle caratteristiche del bambino. Si è soliti distinguere, a riguardo, tra guida fisica, modelling, guide verbali e gestuali, tutte forme di aiuto classiche che prevedono, in maniera più o meno costante la presenza di un adulto, ponendosi sempre come obiettivo la riduzione graduale della propria guida (per esempio passaggio dalla guida fisica a quella verbale) fino alla sua scomparsa.
Gli interventi con strategie visive vanno ad inserirsi proprio in questo panorama di aiuto : come facilitazione all’apprendimento, e di aiuto pratico nella realtà di ogni giorno.
Già nei programmi tradizionali di insegnamento di abilità quotidiane è infatti presente l’uso di immagini che rappresentano prompt visivi. Questo, permette infatti il vantaggio  di non dipendere continuamente da colui che insegna, se non nella fase di familiarizzazione con lo strumento. In questo caso si parla anche di “auto-istruzione” sottolineando il potere di tali strumenti di dare istruzioni senza prevedere la presenza di una persona che “istruisce”all’infinito. In sostanza, l’aiuto visivo, inteso come autoistruzione prevede che il soggetto abbia a disposizione una sequenza di immagini (in verticale o in orizzontale) che lo guidino nelle varie fasi di esecuzione di un compito. Sia nel caso che il soggetto riesca dopo un po’ a interiorizzare la sequenza, sia che rimanga “dipendente” dall’aiuto visivo, in entrambi i casi sarà in grado di svolgere autonomamente un certo compito. È in fondo le stessa cosa che  capita a ciascuno di noi quando vogliamo preparare una torta secondo la ricetta della nonna : non abbiamo più  bisogno che la nonna ci faccia vedere come prepararla (modelling) o ci dica cosa dobbiamo fare (giuda verbale) ogni volta.
Un altro caso in cui gli aiuti visivi vengono previsti  sono  quelli per la “modificazione” di un certo oggetto che deve essere utilizzato nell’attività, per esempio l’aggiunta di un indicatore colorato sopra un miscelatore per facilitare la distinzione tra acqua calda e acqua fredda.
Oppure può essere difficile insegnare al bambino ad utilizzare il bagno per i propri bisogni; A volte il bambino non ha chiaro che il bagno è lo spazio della casa o della scuola che deve utilizzare, altre volte possono essere le caratteristiche fisiche del locale (il colore, la luminosità, gli odori) ad allontanare il bambino, altre ancora l’uso del gabinetto entra all’interno di complesse dinamiche relazionali che vanno affrontate anche con i genitori. Nel primo caso può essere utile contrassegnare con una foto o un disegno la porta del bagno e mostrare al bambino un’immagine identica prima di portarvelo a intervalli definiti. Può anche essere affiancata all’immagine del bagno quella di un rinforzo, un cibo, gioco o attività premio che il bambino  riceverà dopo aver usato il gabinetto. Nel caso in cui invece il bambino non abbia problemi ad entrare in bagno, può essere posto di fronte a lui uno schema visivo con la sequenza di immagini dell’attività.
Qualsiasi sequenza può essere costruita, su qualsiasi attività : vestirsi (con un aiuto limitato alle fasi di vestizione che richiedono abilità fino-motorie e di coordinazione occhio-mano più complesse come abbottonarsi, allacciarsi le scarpe), lavarsi i denti, prepararsi una merenda, attività connesse alla realtà scolastica come preparare lo zaino, oppure la visualizzazione dell’orario di lezione ed altro.
Le strategie visive possono essere messe a disposizione anche per le autonomie sociali come ad esempio la conoscenza del denaro o del concetto di tempo.
Non in ultimo, sono fondamentali per le abilità comunicative, stimolando il linguaggio, o permettendo comunque, in assenza di esso, una modalità comunicativa, o ancora possono funzionare anche nell’autonomia di lavoro, per nuovi apprendimenti ed esercizi cognitivi.
In questo articolo ci si è soffermati principalmente sulle autonomie personali, ma gli ausili visivi possono essere utili anche per altri tipi di autonomie, come per quelle sociali. Per approfondire meglio anche questo altro campo, sarà necessario un ulteriore articolo.

Dott.ssa Federica Tusoni
Terapista Occupazionale
Elicriso Psicologia e Riabilitazione

giovedì 7 giugno 2012

Il Vaginismo. La paura di amare e farsi amare.



Il vaginismo è un disturbo che impedisce alla donna di avere rapporti sessuali completi pur avendo una struttura anatomica senza problemi.
Il termine vaginismo fu coniato dal ginecologo americano Sims (1861); secondo la classificazione proposta dal DSM IV (Apa 2000), si intende “la ricorrente o persistente contrazione involontaria dei muscoli che circondano il terzo esterno della vagina quando si tenta la penetrazione vaginale con pene, dita, tamponi o speculum”. Questo non significa che la donna non abbia desiderio sessuale, ma ha difficoltà nei tentativi di penetrazione. Si parla di  vaginismo primario quando non c’è mai stata penetrazione, si parla di vaginismo secondario quando dopo un periodo di assenza di difficoltà, si inizia a manifestare il sintomo. 

Le Cause
Con l’affermarsi di nuove teorie psicopatologiche, sono emersi diversi punti di vista rispetto alle cause del Vaginismo. Ciò che accomuna le varie teorie è che il vaginismo si vede come un disturbo psicofisiologico, con elementi fobici risultanti da attuali o immaginarie esperienze negative con la sessualità/penetrazione e/o patologie organiche (Masters, Johnson, 1970). La paura e l’ansia rispetto alla penetrazione sono espresse in modo fisiologico attraverso lo spasmo involontario dei muscoli che caratterizza il vaginismo (Reissing et al., 1999).
La sessualità nel caso di vaginismo può essere associata a stimoli e pensieri negativi: una scarsa educazione sessuale, i tabù, un’ipervalutazione della verginità, le esperienze sessuali precoci negative o l’abuso, la paura del dolore, la violenza sessuale, una gravidanza indesiderata, o i rischi legati al concedersi ad un’altra persona, possono essere associati con la paura della penetrazione fino ad arrivare a strutturare una vera e propria fobia.

Il ruolo del Partner
L’esperienza clinica invita a soffermare l’attenzione sul ruolo del partner all’interno della coppia che presenta problemi di vaginismo. Da diversi studi (Simonelli et al., 2003; Graziottin 2003), si sono riscontrate alcune caratteristiche psicologiche ricorrenti nel partner della donna che presenta questo disturbo. L’uomo in genere, risulta essere poco interessato alla sessualità, non mette in discussione il sintomo della compagna attraverso richieste pressanti, e spesso è portatore egli stesso di una difficoltà sessuale (es. disturbo erettile, o eiaculazione precoce) che viene occultato dal vaginismo della donna.

Il trattamento
Durante l’anamnesi è molto importante inizialmente concentrare l’attenzione sulla durata e l’intensità del dolore; questa prima fase consente alle pazienti di esprimere il loro sentimento riguardo alla situazione che stanno vivendo, in una situazione protetta (setting) con una persona competente (sessuologo).
Molto spesso le donne affette da vaginismo ignorano la conoscenza anatomo-fisiologica dei genitali maschili e femminili e la fisiologia del rapporto sessuale ed è molto importante approfondire questo aspetto che apparentemente sembra di scarsa importanza.
Le tecniche comportamentali focalizzate ad una progressiva dilatazione vaginale, sono efficaci per aiutare la donna a sviluppare un controllo volontario dei muscoli della vagina, in modo da gestire consapevolmente lo spasmo che impedisce la penetrazione.
L’esplorazione dei genitali e la progressiva introduzione di un dito  e di un tampone interno, aiutano a fare esperienza della capacità della vagina di contenere senza dolore. Il coinvolgimento del partner avviene in un secondo momento. Il coito sarà l’obiettivo finale del trattamento. Durante il trattamento verranno approfonditi i problemi psicologici associati, quali senso di colpa, ansia del rapporto, sensazioni di inadeguatezza, e aspetti tecnici più specifici legati al rapporto sessuale stesso.
È molto importante far sottoporre la donna ad una visita ginecologica all’inizio dei colloqui perché aiuta ad escludere l’eventuale componente organica ed è importante per la donna verificare la sua adeguatezza fisica. In molti casi di vaginismo è presente l’illusione di poter risolvere da soli il disturbo in brevissimo tempo nonostante esso persista da molti mesi o da anni. Solo quando si abbandona questa convinzione e si prende coscienza che si ha bisogno di un aiuto qualificato è possibile guarire completamente dal vaginismo.

Dott. Michele Fois
Psicologo Psicoterapeuta
Consulente in sessuologia
Elicriso Psicologia e Riabilitazione


giovedì 31 maggio 2012

Che cos'è il gioco?



Panoramica sulla naturale forma d'espressione dell'infanzia: le origini, le implicazioni sociali, l'evoluzione in strumento di crescita e di terapia.

Cosa e perché giochiamo differisce a seconda del nostro punto di riferimento. Nessuna singola prospettiva è quella “giusta”. Nel definire questo termine, ci si trova di fronte a formule frequentemente incomplete o inesatte. Inoltre, il gioco appartiene alla dimensione sociale della persona, che è spesso difficile spiegare in termini logici.
Di seguito vengono riportati alcuni aspetti relativi al gioco dell'infanzia:
  • i bambini giocano indipendentemente dall’appartenenza culturale;
  • si gioca per il solo piacere di farlo. L’attività ludica è un obiettivo in se stessa e non è indirizzata a produrre niente;
  • giocare permette l'elaborazione e la comprensione sociale del bambino;
  • giocare fornisce un’opportunità per diventare più consapevole di sé attraverso l’interazione con il mondo circostante, per decentrarsi e guardare la situazione dal di fuori: “L’orsacchiotto di pezza ha bisogno di cibo, proprio come me”;
  • giocare significa sperimentare, conoscere, crescere;
  • giocare è la principale modalità che il bambino ha per esprimersi.

Come nasce il gioco?
Il gioco si fa con le persone e con gli oggetti.
Per giocare è necessario sviluppare abilità cognitive, motorie, linguistiche e, a sua volta, l'attività in sé è l'occasione in cui il bambino impara e potenzia queste competenze.
Il primo “oggetto” ludico è l’adulto. Il volto umano diventa ben presto ciò che maggiormente stimola le risposte del neonato, che interagisce con i genitori in un dialogo alternato.
In forme diverse, il ruolo della madre e del padre è fondamentale in questo percorso. Nella diade mamma-bambino, il piccolo inizia a scrutarne il volto, a sorridere, a rispondere al sorriso, dando vita ad un processo a spirale in cui le battute degli attori si modificano reciprocamente e gradualmente, fino ad una sempre maggiore sincronizzazione di questa prima forma ludica e di socializzazione. Il contatto di sguardi e le reazioni all'espressione del viso si collegano e coordinano, in un complesso ma infallibile processo, al tono muscolare, a emozioni, a vocalizzi, mobilitando l'integrazione di più canali sensoriali.
In questo dialogo, la madre introdurrà diversi oggetti, il bambino dimostrerà di poter guardare la mamma, l'oggetto e poi di nuovo la mamma, indicherà, comunicherà con suoni sempre più complessi.
Inizia la co-costruzione di significati emotivi socialmente condivisi, che si evolvono per tutto il resto della vita (intersoggettività).
Si sviluppano abilità quali l'orientamento verso uno stimolo nuovo, l'attenzione, l'alternanza dei turni, l'integrazione di diverse modalità sensoriali in nuove configurazioni.
Le esperienze di coppia servono poi per maturare scambi a tre (bambino-soggetto-oggetto). Prendono forma l'attenzione congiunta, l'imitazione, l'emozione e l'intenzione condivisa.
Contemporaneamente al processo descritto e attraverso di esso si sviluppa il gioco: prima con le persone vicine, poi con le parti del corpo, gli oggetti e infine con l'interazione tra oggetti e persone. Compaiono giochi di movimento/esercizio, sensomotori, organizzativi, simbolici e di finzione, infine si sviluppano attività sempre più sociali fino a trasformarsi in giochi di regole e di squadra.
Dal gioco inizia la capacità di padronanza della realtà e lo sviluppo di abilità, che serviranno in età adulta e nella vita quotidiana.
Gli elementi sociali e l'attività ludica si intrecciano e sovrappongono, partendo dal riconoscimento del viso, fino allo sviluppo del linguaggio e di competenze motorio-prassiche sempre più complesse, caratterizzando il nostro essere umani.
Giocare non è un modo di impiegare il tempo libero, ma una tappa insostituibile dello sviluppo dell'individuo.

Perché si usa il gioco in terapia?
L'intervento terapeutico in età evolutiva, soprattutto nell'area della neuropsicomotricità, è attuato attraverso il gioco.
Infatti, quest'ultimo rappresenta lo spazio espressivo del bambino, un ponte per il suo mondo, vi garantisce l'accesso e diviene un importante strumento di decodifica dello stesso, oltre che mezzo di comunicazione; inoltre, rappresenta la motivazione all’azione e al movimento, dunque alla sperimentazione.
Tutto ciò è utile ai fini dell'esplorazione dell’ambiente e dell’esercizio di numerose abilità, divenendo porta d’accesso alla conoscenza e quindi alla crescita dell’individuo nella sua globalità.
In terapia rappresenta la relazione col bambino e funge da sfondo e cornice per la riabilitazione di molte competenze, permettendo la funzione terapeutica di stimolazione e accompagnamento alla crescita.


Dott.ssa Serena Tedeschi
Terapista della Neuro e Psicomotricità dell'Età Evolutiva
Elicriso Psicologia e Riabilitazione

sabato 19 maggio 2012

Domande e Risposte su Alimentazione e Gravidanza: facciamo un pò di chiarezza!




  1.  Ora siamo in due, devo raddoppiare la mia razione di cibo?

Assolutamente no!
È sicuramente vero che durante la gravidanza il fabbisogno di nutrienti, come minerali, vitamine e proteine, aumenta notevolmente, ma questo non si traduce in un raddoppio delle calorie giornaliere necessarie. Ciò che bisogna fare è privilegiare la “qualità” piuttosto che la “quantità” degli alimenti.
In pratica, nei primi tre mesi di gravidanza non è necessario aumentare le calorie, mentre successivamente si richiede un aumento calorico che dipende dal peso della madre all’inizio della gravidanza. Normalmente il fabbisogno calorico aggiuntivo lo si può raggiungere semplicemente mangiando 1 frutto e un bicchiere di latte in più al giorno, oppure aumentando di circa 40 g la razione di pasta.

  1. Per coprire il mio fabbisogno proteico, devo mangiare carne tutti i giorni?
Falso!
Le proteine sono fondamentali per la costruzione degli organi e dei tessuti del nostro bambino. Esse si trovano in alimenti di origine animale: carne, pesce, uova e latte, ma anche in quelli di origine vegetale come cereali e legumi. Se è vero che le proteine animali sono più facilmente assorbibili dal nostro organismo, le proteine vegetali possono raggiungere la stessa qualità nutrizionale, se combinate in maniera corretta fra i vari cibi.
In pratica, per coprire il fabbisogno proteico in gravidanza:
·       carne magra (alternando bianca o rossa) 2-3 volte a settimana
·       pesce (privilegiando quelli di piccola taglia per evitare pericolo di contaminazioni da metalli pesanti) 3 volte a settimana
·       legumi uniti a cereali (pasta/riso/pane), 3 volte a settimana
·       latte e latticini 2-3 volte al giorno
Per precauzione è sempre bene assumere latte e derivati pastorizzati, cuocere bene carne, pesce e uova ed evitare gli insaccati e i salumi.

  1. Devo aumentare il consumo di alimenti che contengono calcio?
Vero!
Il fabbisogno di calcio in gravidanza aumenta e per quanto l’organismo si adatti incrementando la sua capacità di assorbirlo dagli alimenti, è comunque necessario introdurre le giuste quantità di questo minerale tramite la dieta.
Buone fonti di calcio sono soprattutto i latticini (latte pastorizzato, yogurt e formaggi, fra cui spicca il parmigiano reggiano), ma anche alcuni alimenti vegetali (per esempio legumi, cereali integrali, frutta secca, broccoli, fagiolini, finocchi), così come particolari acque minerali ricche di calcio.

  1. Devo ridurre il consumo di sale?
Falso
Durante la gravidanza il fabbisogno di sodio, il maggior costituente del sale, aumenta, perciò non c’è ragione di ridurre il consumo di sale ma neanche di aumentarlo. Normalmente il consumo di sale è superiore a quello di cui necessitiamo, in quanto esso è presente in molti alimenti industriali anche se noi non ce ne accorgiamo e quindi nella nostra quotidianità l’aggiunta di sale ai nostri piatti andrebbe limitata. Tuttavia l’apporto di sodio necessario in gravidanza viene soddisfatto da una alimentazione equilibrata, seguendo le stesse precauzioni che normalmente vanno seguite. Piuttosto, è importante utilizzare il sale iodato, per garantire anche il giusto apporto di iodio.

  1. Devo per forza assumere integratori?
Al medico l’ardua sentenza!
FERRO - Il fabbisogno di ferro in gravidanza raddoppia, ma per fortuna normalmente noi donne abbiamo un certo quantitativo di ferro di riserva. Inoltre anche la capacità di assunzione di ferro, così come quella di calcio, da parte del nostro organismo viene incrementata durante la gravidanza. Di conseguenza non sempre è necessario integrare l’alimentazione con ferro. Tuttavia le riserve di questo minerale devono essere strettamente controllate e se scendessero sotto la soglia minima sarà il medico a valutare la eventuale necessità di integrazione.
Per ridurre il rischio di cadere in carenze, è meglio consumare le giuste quantità dei seguenti alimenti, sia animali che vegetali: carne, uova, legumi, cereali integrali, verdure verdi. Un trucco per aumentare l’assorbimento di ferro è quello di consumare l’alimento con succo di limone o una spremuta di arancia, in quanto la vitamina C ne aumenta l’assorbimento.
MAGNESIO – anche il fabbisogno di magnesio aumenta in gravidanza e carenze di questo minerale possono provocare doglie premature. I sintomi più frequenti sono crampi a livello muscolare. Per un buon apporto di magnesio è importante consumare adeguate quantità di frutta secca, legumi, cereali integrali, carne e verdure.
ACIDO FOLICO – questa vitamina è fondamentale per l’adeguato sviluppo del feto e un adeguato apporto sembra essere importante per la prevenzione di malformazioni a carico del midollo spinale. Tali malformazioni avvengono soprattutto nella fase embrionale e perciò si consiglia di cominciare ad introdurre l’acido folico tramite integratori fin dal momento in cui si decide di fare un figlio. Buone fonti alimentari di questa vitamina sono comunque le verdure, i cereali integrali, i legumi e il tuorlo dell’uovo.
VITAMINE – Una corretta alimentazione in una donna sana è perfettamente in grado di supplire alla necessità di vitamine. Risulta pertanto inutile in queste condizioni l’utilizzo di integratori. Tuttavia esistono condizioni di carenze, accertate dai medici, in cui potrebbe rendersi necessaria una adeguata introduzione di preparati vitaminici.

  1. Devo evitare di consumare bevande alcooliche?
Vero!
L’alcool attraversa la placenta e può arrecare danni allo sviluppo del bambino. Inoltre la capacità di smaltimento di alcool da parte di un bambino durante la vita intrauterina è di gran lunga ridotta rispetto a quella dell’adulto, perciò anche quelle che per noi potrebbero essere piccole dosi di alcool, se assunte regolarmente potrebbero determinare accumuli dannosi nel corpicino del nostro piccolo. Per questo è consigliabile eliminare del tutto l’alcool durante la gravidanza.
  

  1. Devo eliminare totalmente la caffeina?
Falso!
Sicuramente è bene ridurre il consumo di caffeina in gravidanza ma l’assunzione di una o due tazzine di caffè al giorno non determina normalmente alcun pericolo per il nostro bambino.

  1. Devo sempre soddisfare le mie voglie?
Falso!
Contrariamente ad una credenza popolare molto comune, evitare di soddisfare le così-dette “voglie” non ha alcuna conseguenza né per la mamma né per il nascituro. Ricorda che i dolci sono fonte di grassi saturi e zuccheri e possono portare ad un aumento di peso eccessivo durante la gravidanza, così come gli insaccati, i formaggi e le salse da condimento. Seguendo una corretta alimentazione, anche il desiderio di questi cibi si abbassa, contribuendo alla salute del nostro bambino e al giusto mantenimento del peso della mamma.


Dott.ssa Cristiana Miglio
Biologo Nutrizionista e Consulente Alimentare
Elicriso Psicologia e Riabilitazione 


venerdì 18 maggio 2012

L’insuccesso scolastico




Di cosa parliamo?
Parliamo di un fenomeno silenzioso, ma preoccupante, che riguarda molti minori nel nostro paese, vale a dire l’insuccesso scolastico e che, al contrario di quanto si pensi, ha a che fare molto poco con l’equipe multidisciplinare che si occupa di disturbi di sviluppo e psicopatologici, ma molto con famiglia, scuola, istituzioni sociali.
Cos’è l’insuccesso scolastico?
Si tratta di uno spettro di situazioni che vanno dallo scarso impegno/motivazione scolastica con inevitabile ricaduta sulle prestazioni accademiche, che risultano ridotte o francamente inadeguate rispetto alla classe frequentata, fino alla bocciatura o all’abbandono scolastico.
Quali sono i numeri che descrivono l’insuccesso scolastico?
Ne esistono diversi, quelli più chiari riguardano lo spettro estremo cioè la fetta di dispersione scolastica, vale a dire la somma di bocciati e abbandoni scolastici.  L’ultima rilevazione sulla dispersione effettuata dal ministero, risale all’anno scolastico 2004/2005 e si contavano 2,9 “dispersi” su cento alunni alle scuole medie e 12,9 “dispersi”, sempre su cento, alla scuola superiore.
Nel 2011 la dispersione scolastica si è addirittura incrementata, perché si sono aggiunti gli abbandoni senza lasciare traccia - 0,2 per cento alla scuola media e 0,9 al superiore  la dispersione in generale è salita al 5,5 per cento alla media e al 14,9 al superiore per un totale di 434 mila studenti. Le percentuali medie di abbandoni sono comunque man mano diminuite dal 36,8 per cento calcolato per l'anno scolastico 1999/2000 fino al 31,7 dell’ultimo anno scolastico.
L’insuccesso da che cosa dipende?
Ci sono diverse condizioni che possono spiegare o solo associarsi più frequentemente all’insuccesso scolastico e sono di tipo sociale, culturale e/o mediche.
Tra le cause sociali e culturali vanno annoverate differenze in età evolutiva del potenziale accademico/cognitivo, del territorio, delle difficoltà d’integrazione, di sostenibilità economica e/o complessità dei nuclei familiari/delle relazioni interpersonali, soprattutto in alcune fasce di età.
La scuola, così come altre istituzioni preposte ad educare, spesso non favorisce un’identificazione corretta dei bambini precoci, e non promuove stili educativi personalizzati e non discriminanti, anche per bambini particolarmente talentuosi.
Ci sono dati importanti che riguardano la riuscita scolastica degli alunni stranieri: la forbice di insuccesso scolastico fra studenti italiani e quelli con altra cittadinanza, nella scuola primaria si è attestata al -1,2%; cresce invece il divario nelle scuole secondarie: dal -13,1% del 2002/03 si è giunti al -15,8% del 2008/09. Inoltre il 41% degli alunni stranieri si iscrive negli istituti professionali e il 39% in quelli tecnici.
I valori più bassi della dispersione nelle scuole medie statali si registrano al Nord (0,09%), mentre quelli più elevati si evidenziano nelle Isole (0,67%) e al Sud (0,55). La dispersione risulta più pesante negli istituti professionali (8,7%) e negli istituti d'arte (6%).
Il disagio giovanile è un fenomeno in crescita, le cui cause sono molteplici, in parte legate ai nuovi modelli di società, di relazioni interpersonali, di forme familiari e sembra incidere in molti abbandoni in scuole medie e superiori, che risultano maggiori in tutte le realtà-paese svantaggiate dal punto di vista sociale che economico.
Rispetto alle condizioni mediche annoveriamo soprattutto patologie neuropsichiatriche di vario tipo, quali: psicopatologie, disturbi di sviluppo, disturbi del comportamento.
Le patologie dello sviluppo responsabili di insuccesso sono: ritardo mentale, disturbo generalizzato dello sviluppo, DSA, ADHD, disturbo della coordinazione motoria (DCM).
Tra le psicopatologie: disturbo ansioso, depressione, psicosi, disturbo borderline di personalità.
Tra i disturbi del comportamento: disturbo della condotta, disturbo antisociale.
È importante valutare in qualsiasi disturbo neuropsichiatrico l'impatto psicologico ed emotivo che l'arrivo di una diagnosi di questo tipo può provocare in ciascuna famiglia e alunno.
Le convinzioni che lo studente e la famiglia hanno sull'intelligenza/capacità accademiche e adattive, sulla fiducia di sé, gli obiettivi dell'apprendimento (padronanza o prestazione) e le attribuzioni del proprio successo o insuccesso formano gli aspetti emotivo-motivazionali dell'apprendimento e sono importanti componenti in grado di stimolare e sostenere gli sforzi necessari per affrontare strategicamente lo studio o viceversa determinare un insuccesso scolastico.
Chi si occupa di insuccesso scolastico?
Si può comprendere che l’equipe multidisciplinare interviene solo in minima parte nell’affrontare l’insuccesso scolastico e per specifiche patologie neuropsichiatriche, pertanto non è corretto semplificare il problema dell’insuccesso con una patologia.
Gran parte dell’analisi del problema insuccesso può e deve essere fatto da famiglia, scuola, istituzioni territoriali con valenza socio-educativa.
Che si può fare a scuola?
Per la scuola va tenuto presente che per ogni alunno, tanto più se con insuccesso scolastico, bisognerebbe partire da un corretto profilo di chi apprende, che tenga conto di concetti come capacità-performance, deficit, relazioni di influenza, adattamento e che permetta di individuare un percorso di apprendimento senza errori che, possa potenziare o "ricostruire" le capacità emotivo-motivazionali dell’alunno, che non sono mai scontate, evitare un’impotenza appresa, favorendo meccanismi di autoregolazione, integrazione, autostima, che riducono la percezione di disagio rispetto all’insuccesso e permettono un percorso accademico efficace e soprattutto gratificante.

Dott.ssa Alessandra Corcelli
Medico Chirurgo
Specialista in Neuropsichiatria Infantile
Elicriso Psicologia e Riabilitazione

mercoledì 16 maggio 2012

Il ruolo del nutrizionista durante la gravidanza




La dieta materna influenza notevolmente il corretto sviluppo del feto e sempre più studi stanno mettendo in evidenza da ormai un paio di decenni il ruolo di “programming” che la nutrizione materna ha nei confronti del metabolismo del bambino, tanto che sembrerebbe che una alimentazione scorretta durante la gravidanza possa in qualche misura predisporre il figlio ad alterazioni metaboliche in età adulta.
Dunque, uno stretto controllo dell’aumento ponderale è ritenuto oggi di grande importanza non solo per evitare complicazioni durante la gestazione (diabete gestazionale, preeclampsia, etc.) e per evitare problemi alla nascita (difetto di crescita fetale, parto prematuro etc.), ma anche per garantire un corretto sviluppo del metabolismo del bambino.
Il ruolo del nutrizionista in questa fase è quello di fare un’attenta valutazione delle abitudini alimentari, elaborare un piano dietetico adatto alle esigenze della singola persona,  variandolo a seconda che si tratti di una mamma che è giunta alla gravidanza con un sovrappeso, in una condizione di normopeso oppure in uno stato di malnutrizione, eseguire il periodico controllo delle variazioni ponderali e rispondere in maniera semplice e chiara ai dubbi dei genitori.
Il nutrizionista quindi è particolarmente indicato nei casi di soggetti potenzialmente a rischio, come le mamme obese o sottopeso, oppure con patologie di varia natura (malattie autoimmuni, allergie, dismetabolismi, diabete), ma sicuramente anche per quelle donne sane che desiderano mantenere il giusto peso durante e dopo la gravidanza, nell’interesse personale e del proprio bambino. Molto importante infine è il giusto contatto fra nutrizionista e medico specialista, anche per l’eventuale valutazione della necessità di inserire nella dieta degli integratori alimentari.

Dott.ssa Cristiana Miglio
Biologo Nutrizionista e Consulente Alimentare
Elicriso Psicologia e Riabilitazione