lunedì 17 dicembre 2012

I BENEFICI DEL MASSAGGIO INFANTILE





Il Massaggio Infantile è frutto della fusione di diverse tecniche: massaggio indiano rilassante, massaggio svedese che favorisce il flusso sanguigno verso il cuore, riflessologia plantare e yoga. Si tratta di gesti semplici ed effettuabili da tutti che evocano le sensazioni cui è stato già sottoposto il neonato durante la gravidanza, quando era ancora sospeso nel liquido amniotico del ventre materno. Vimala McClure ha codificato delle tecniche in sequenza, ma poiché ogni bambino è unico queste tecniche possono essere adattate di caso in caso. Il massaggio è ugualmente utile sia che venga effettuato dalla madre sia da personale specializzato; naturalmente nel caso che a farlo siano i genitori, tra i benefici ci sarà anche un legame migliore nell’ambito della famiglia. Per questo motivo le associazioni che si occupano di massaggio infantile offrono corsi diversi per genitori o per diventare esperti e terapeuti.

Quali sono i benefici?
I benefici sul bambino riguardano il sollievo, principalmente da coliche e tutti quei dolori che coinvolgono il sistema gastrointestinale ancora immaturo, ma anche nei fastidi che compaiono durante il periodo della dentizione; il massaggio è di sostegno nei disturbi del ritmo sonno-veglia e aiuta il bambino a rilassarsi e affrontare con più sicurezza situazioni che provocano stress e inquietudine. Questa pratica aiuta inoltre le funzioni respiratorie, circolatorie e coinvolge la regolazione degli ormoni riducendo la produzione dell’ormone dello stress (cortisolo) e aumentando la prolattina, ormone che rilassa.
Gli effetti fisiologici sono in stretto legame con lo sviluppo psicologico, il contatto che si crea tra genitore e figlio durante l’esperienza del massaggio è un dialogo di amore e rispetto aiuta il bambino a costruire un’immagine di sé, sviluppa fiducia in se stesso e nell’altro.


Roberta Bassani
DanzaMovimento Terapeuta
Insegnante AIMI di Massaggio Infantle
Elicriso Psicologia e Riabilitazione

LE MAESTRE DICONO CHE SCRIVO MALE! Disgrafia: cos'è e come riconoscerla.



L'ingresso alla scuola elementare segna un momento importante per i bambini, di crescita e di cambiamento. Cambiano le insegnanti, talvolta i compagni, cambiano gli spazi e i tempi, ma soprattutto cambiano i compiti e le richieste: inizia l'apprendimento delle materie curriculari. L'attività che occuperà la maggior parte del tempo sarà la scrittura. Si chiederà ai bambini di scrivere sul quaderno o di copiare dalla lavagna, lettere, parole, frasi, testi, e di continuare a scrivere a casa per svolgere i compiti.
Ma cosa significa scrivere?
La scrittura è la rappresentazione grafica del linguaggio verbale, per mezzo di un sistema di segni detti grafemi.
Scrivere, soprattutto se in corsivo, viene considerato la naturale evoluzione del movimento umano, del quale conserva e rispecchia le caratteristiche di continuità e fluidità. Alcuni studiosi definiscono questa abilità, o più specificatamente la grafo-motricità, come una funzione applicata della psicomotricità (Tajan, 1982).
Dietro questo atto quotidiano, automatico e fluido, si nascondono processi molto più complessi, che operano in maniera sinergica. Alla base, si coordinano diverse competenze: di percezione visiva, di organizzazione ed integrazione spazio-temporale, di conoscenza e rappresentazione dello schema corporeo, di coordinazione motoria, di dominanza laterale, di memoria e attenzione.
Inoltre, per scrivere il bambino impara a controllare a più livelli l'arto superiore per la prensione dello strumento grafico, il corretto assetto posturale da mantenere, la modulazione della forza usata e della pressione impressa sul foglio, gli aspetti dimensionali e direzionali del tratto, nonché il ritmo della scrittura.
Che vuol dire scrivere male?
Scrivere male potrebbe essere sintomo di Disgrafia.
La Disgrafia è un disturbo correlato al linguaggio scritto, che riguarda le abilità esecutive della scrittura. È un Disturbo Specifico dell'Apprendimento (DSA) che si manifesta con difficoltà a riprodurre sia i segni alfabetici che quelli numerici. Questa difficoltà riguarda esclusivamente il grafismo e non le regole ortografiche e sintattiche che, nonostante tutto, potrebbero essere inficiate a causa della frequente difficoltà di rilettura e di autocorrezione.
Il disturbo della scrittura può essere evidenziato solo a partire dalla seconda elementare, quando l'apprendimento del codice scritto è dato per acquisito (Facecchia e al., 2011).
Chi sono i bambini disgrafici?
La disgrafia può avere diverse cause: difficoltà motorie, problemi linguistici e di lettura, problemi comportamentali (Ajuriaguerra e Auzias, 1975).
I principali manuali per la diagnosi e l'inquadramento del disturbo individuano alla base diversi aspetti disfunzionali: difficoltà esecutive; deficit negli ambiti dell'apprendimento, di tipo fonologico/lessicale/sintattico; l'associazione di più fattori che inficiano il processo di codifica della scrittura (Bertelli e Bilancia, 1996).
Altri studi dimostrano la relazione con il disturbo del movimento e il ruolo centrale di quest'ultimo (Hamstra-Bletz e Blote, 1993). A questi deficit spesso si sommano quelli di processamento visivo.
La prevalenza delle difficoltà di scrittura è stimata tra il 5% e il 25%.
I bambini disgrafici hanno un quoziente intellettivo nella norma, ma fanno molta fatica a scrivere e non amano questa attività. Presentano una scrittura molto irregolare e disomogenea per forma e dimensione dei grafemi, lenta e illeggibile; gli alunni disgrafici dimenticano il modo in cui vengono composte le lettere o utilizzano modalità non uniformi e atipiche per la composizione delle stesse. 
La postura del tronco, della testa e del braccio è alterata: spesso il gomito dell'arto impegnato nella funzione è sollevato dal piano di appoggio, mentre l'altro arto viene svincolato dal ruolo di supporto.
Si osservano, inoltre, uno scarso controllo dello spazio grafico e dei collegamenti tra i grafemi: la linea di scrittura può presentarsi orientata verso l'alto o verso il basso, lo spazio tra le lettere o le parole è frequentemente eccessivo o insufficiente, si evidenziano frequenti inversioni dei caratteri. Copiare alla lavagna potrebbe essere complesso, in quanto i compiti da tenere sotto controllo sono maggiori e si aggiunge la difficoltà di passare da un piano verticale ad un piano orizzontale continuamente.
Questi aspetti si discostano dalle usuali differenze stilistiche presenti tra gli alunni e determinano nei bambini un disagio nell'adattamento della vita quotidiana.
Quando è importante intervenire?
Nell'era della tecnologia, in cui qualsiasi supporto digitale permette la produzione di testi scritti con caratteri universali e leggibili, si sceglie di intervenire sulla disgrafia quando quest'ultima diventa un disagio nelle attività quotidiane e un ostacolo al processo di crescita. Inoltre, non vanno sottovalutate le implicazioni socio-emotive che essa comporta.
Gli obiettivi dell'intervento sono volti prima di tutto al recupero delle disfunzioni della scrittura e al sostegno dello sviluppo armonico del bambino. 
La sperimentazione continua di insuccesso porta il piccolo a sviluppare una scarsa autostima, che può scaturire in un disagio psicologico caratterizzato da manifestazioni socio-affettive quali inibizione, aggressività, atteggiamenti istrionici e in alcuni casi depressione. La disgrafia lo pone di fronte alla certezza della propria incompetenza, poiché la scrittura è l'aspetto più visibile dell'apprendimento. Spesso si sviluppa precocemente rifiuto per la scuola, contenitore del disturbo.
Dunque, appare importante individuare il bisogno di aiuto del bambino e la sua motivazione. Un intervento precoce permette una migliore efficacia del trattamento. Infatti, con il passare del tempo le modalità di scrittura possono diventare sempre più radicate e difficili da modificare.
La diagnosi di disgrafia viene effettuata tramite la collaborazione di diverse figure professionali (neuropsichiatra infantile, psicologo, terapista delle neuro e psicomotricità dell’età evolutiva) e la figura maggiormente indicata per il trattamento riabilitativo è il terapista delle neuro e psicomotricità dell’età evolutiva.
In ultima analisi, si sottolinea l'importanza della prevenzione e del ruolo di genitori ed insegnanti nell'individuazione dei fattori di rischio già nella scuola dell'infanzia.



Dott.ssa Serena Tedeschi
Terapista della Neuro e Psicomotricità dell'Età Evolutiva
Elicriso Psicologia e Riabilitazione


venerdì 14 dicembre 2012

I disturbi specifici dell'apprendimento (DSA)



Con il termine Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) ci si riferisce ad un gruppo eterogeneo di disturbi che si manifestano in età evolutiva con significative difficoltà nell’acquisizione di uno specifico dominio delle abilità scolastiche (scrittura, lettura e calcolo) in bambini con intelligenza nella norma. Si tratta solitamente di difficoltà che si manifestano nel bambino fin dalle prime fasi del suo apprendimento, quando deve acquisire nuove abilità partendo da un assetto neuropsicologico che non favorisce l'apprendimento automatico di queste specifiche abilità.

Secondo la Consensus Conference del 2011 vengono riconosciuti i seguenti DSA:
·    dislessia: disturbo di decodifica della lettura che riguarda difficoltà a leggere correttamente e/o velocemente ad alta voce.
·    disortografia: disturbo della scrittura che riguarda difficoltà nella codifica fonografica e nelle competenze ortograficche
·    disgrafia: disturbo della scrittura che riguarda difficoltà nell’aspetto grafo-motorio
·    discalculia: disturbo del calcolo che riguarda, a seconda dei casi, le abilità del sistema del numero (scrittura e lettura di numeri, conteggio, etc.)  e del calcolo (calcoli a mente, procedure delle operazioni, memorizzazione delle tabelline, etc.)

I DSA possono riguardare un ambito specifico ma nella pratica clinica è frequente incontrare l'associazione di più disturbi (ad esempio dislessia e disortografia); si tratta comunque di disturbi distinti, ognuno con le proprie caratteristiche.

La diagnosi di DSA non può essere effettuata prima della fine della seconda elementare (e nel caso della discalculia prima della fine della terza elementare), ma, se al termine del primo anno della scuola primaria di primo grado, un bambino presenta caratteristiche che possano far ipotizzare un possibile disturbo dell’apprendimento, è consigliabile portarlo in valutazione.
Infatti, l’individuazione precoce del disturbo, ed il conseguente intervento, cambia il percorso di apprendimento del bambino ed evita altri tipi di problematiche a livello emotivo e motivazionale a cui vanno incontro bambini con DSA.

I Disturbi Specifici dell'Apprendimento (DSA) rappresentano oggi un problema rilevante con cui si confrontano bambini, famiglie, educatori, pediatri e specialisti (neuropsichiatri, psicologi, logopedisti, terapisti della neuropsicomotiricità, etc.). Tali difficoltà sono largamente diffuse e sono spesso associate ad un severo disagio con risvolti emotivi, cognitivi e sociali importanti.
In Italia, i DSA hanno una prevalenza tra il 2,5 e il 3,5% della popolazione in età evolutiva (Consensus Conference, 2011) e sono ufficialmente riconosciuti da una legge (170/2010) che offre ai bambini che presentano tali disturbi maggiori garanzie per lo sviluppo delle loro potenzialità.


Dott.ssa Laura Franceschin
Psicologa
Elicriso Psicologia e Riabilitazione

Il Massaggio Infantile




Creare benessere, proteggere la salute, ma anche rafforzare il legame tra genitori e figli. Il Massaggio Infantile  non è solo una tecnica, ma anche un modo per comunicare basato sul tatto, che si può eseguire fin dai primi giorni di vita del neonato, e può continuare durante gli anni; inoltre è indicato anche per bambini con problemi di salute o bambini con bisogni speciali.

La scoperta e la diffusione del massaggio infantile in Occidente si deve alla passione e all’entusiasmo di una donna statunitense, Vimala McClure. In Italia fra le associazioni che se ne occupano vi è l’AIMI, l’Associazione Italiana Massaggio Infantile, fondata a Genova nel 1989, che fa parte dell’International Association Infant Massage (IAIM), l’organizzazione che riunisce varie associazioni nazionali presenti in diversi stati: Danimarca, Svezia, Quebec, USA, Canada, Germania, Spagna, Nuova Zelanda, Australia. La sede internazionale (IAIMI) si trova in Svezia dal 1994.

La storia
La donna che ha perfezionato e diffuso in Occidente le tecniche del massaggio infantile è una statunitense del Colorado, Vimala McClure, che ha appreso le modalità di questa tecnica durante un periodo di lavoro in un orfanotrofio in India. Nel 1976, tornata in America e in attesa del primo figlio, Vimala decide di studiare e approfondire questa pratica, perfezionandola alla nascita del bambino. Successivamente, pubblica il suo primo libro, “Infant Massage: a Handbook for Loving Parents”. Nel 1981, grazie alla californiana Audrey Downes, nasce l’International Association Infant Massage Instructors, e la pratica del massaggio infantile inizia a diffondersi nel mondo.
In Italia arriva grazie a Benedetta Costa, terapista della riabilitazione nel campo pediatrico, che nel 1983 negli Stati Uniti partecipa ai corsi per instructors tenuti da Vimala. Tornata in Italia introduce l’insegnamento del massaggio presso il Servizio di Fisioterapia e nell’Unità di Terapia Intensiva Neonatale dell’Ospedale Gaslini di Genova. Inizia anche ad organizzare corsi per operatori e, grazie all’aiuto di una trainer americana, Maria Mathias, forma i primi insegnanti a Genova e Bologna. I corsi Aimi si tengono in Italia regolarmente dal 1990.

I corsi per i genitori
I corsi, che si articolano in cinque incontri, approfondiscono diversi punti:
·       teoria e pratica del massaggio;
·       rilassamento del bambino;
·       discussione sul legame madre-padre-bambino;
·       comunicazione non-verbale;
·       come variare il massaggio durante la crescita del bambino;
·       trattamento di disturbi frequenti nella prima infanzia come stipsi, meteorismo, coliche addominali, il pianto;
·       il massaggio e il bambino prematuro, ospedalizzato, disabile, in adozione, in affidamento.
Vimala McClure introduce i genitori al massaggio del bambino, sottolineando da una parte la tradizione secolare di tale pratica in India e dall’altra come il tempo del massaggio sia potenzialmente promotore di una migliore relazione: luogo privilegiato di ascolto dei segnali del bambino e di comunicazione.
Le nostre mani non solo comunicano amore, tenerezza e calore, ma quando usate per massaggiare infondono sicurezza, voglia di vivere e benessere. Il classico “massaggio sulla bua” che una mamma fa al proprio figlio, per esempio, ha un preciso fondamento. Tiffany Field ricercatrice, coordinatrice di oltre 50 ricerche sul tatto presso l’unico centro mondiale che studia scientificamente la pelle come organo di senso il Miami Touch Research Institute , spiega che “Il contatto e la pressione favoriscono la produzione di endorfine, naturali soppressori del dolore”.
In un’epoca in cui l’educazione genitoriale oscilla tra paura di “viziare” toccando troppo (tenendo troppo in braccio) i propri figli e il desiderio di crescerli in fretta, così da renderli presto autonomi, gli studi di René Spitz, John Bowlby, Mary Ainsworth e Marshall H. Klaus, ben ci illuminano sullimportanza della formazione del legame e dello stile d’attaccamento nello sviluppo dell’individuo.
Scrive il dott. Roberto Rossigni Ricercatore Universitario del Istituto Clinico di Pediatria Preventiva e Neonatologia dell’Università di Bologna “Come pediatra credo che potrebbe essere molto gioioso, per voi genitori, provare a massaggiare vostro figlio. Se l’interazione tra voi e il vostro bambino sarà piacevole e il massaggio divertente per entrambi, offrirete molte possibilità di ascolto e di stimolazione che costituiranno una solida base di conoscenza e di crescita per il futuro del vostro cucciolo.”


Roberta Bassani
DanzaMovimento Terapeuta
Insegnante AIMI di Massaggio Infantle
Elicriso Psicologia e Riabilitazione



Cosa fare per evitare sovrappeso e obesità nei nostri bambini




Il 17 novembre scorso si è tenuta in contemporanea in 12 diverse regioni Italiane la seconda edizione degli Stati Generali della Pediatria, una giornata organizzata dalla Società Italiana di Pediatria, in occasione della Giornata Mondiale del Bambino e dell’Adolescente, per una consultazione sul tema “Nutrizione e salute dal bambino all’adulto”. L’obiettivo dell’iniziativa è stato quello di riunire esperti, genitori, studenti, imprenditori dell’industria alimentare e istituzioni per individuare possibili percorsi strategici e promuovere l’adozione di stili di vita salutari e di corrette abitudini alimentari sin dalle primissime età della vita, prevenendo così anche lo sviluppo di malattie invalidanti da adulti, quali il diabete, l’ipertensione, malattie cardiovascolari, allergie, osteoporosi.
È infatti ormai diffusa tra gli scienziati la convinzione che molti dei disturbi metabolici che sorgono in età adulta siano in realtà prevenibili modificando le abitudini alimentari dei bambini e addirittura delle donne in gravidanza. Ecco perché è così importante cominciare a prendere provvedimenti fin dalla nutrizione pre- e post-natale e dall’alimentazione del bambino in età pre-scolare, proprio in quel periodo in cui il bambino comincia a sviluppare “l’impronta digitale” del proprio metabolismo.

Quali sono i fattori di rischio dell’obesità infantile?
È uno studio finanziato dalla Comunità Europea e svolto da 40 centri di Ricerca, di cui 5 italiani, di 16 Paesi europei (EARNEST 2005-2010) a rispondere a questa domanda, individuando 5 fattori di rischio: fumo e uso di sostanze tossiche per il feto in gravidanza; limitazioni all’allattamento materno; eccesso proteico ed esagerata introduzione di zuccheri nelle prime età della vita. Inoltre è anche importante ricordare che l’alimentazione della madre durante la gravidanza può incidere notevolmente, in quanto eccessi o carenze nutrizionali della madre, così come alterazioni metaboliche quali obesità, diabete o ipertensione aumentano il rischio per il nascituro di sviluppare obesità durante l’accrescimento.

Come prevenire l’obesità?
Uno dei risultati di questa giornata è stata la stipula di una lista di regole da seguire per evitare che un cattivo stile di vita o altri fattori di rischio possano portare i bambini all’obesità. Tutte azioni di prevenzione da intraprendere fin dai primi mesi di vita:
  1. Innanzitutto l’aspetto più importante inizia dall’allattamento al seno che dovrebbe durare almeno 6 mesi. Dopo di che si può iniziare lo svezzamento con una alimentazione mista, stando attenti ad evitare l’eccesso di proteine per tutti i primi due anni di vita.
  2. In secondo luogo, molto importante è controllare che l’accrescimento avvenga in maniera regolare tramite visite specialistiche periodiche e favorire un buon ciclo sonno-veglia, garantendo che il bambino dorma intorno alle 14-16 ore nell’arco della giornata nel caso del lattante; 12-14 ore per i bambini da 1 a 3 anni; 11-12 ore nell’infanzia e 9-10 durante l’adolescenza.
  3. Il terzo punto fondamentale è quello di evitare l’abuso di televisione e computer, introducendo dei limiti ben precisi: no alla televisione prima dei 2 anni e al massimo 2 ore al giorno per età superiori, evitando completamente l’utilizzo durante i pasti e in camera da letto.
  4. Infine, dai 5 anni in poi iniziare ad abituare il bambino a vivere una vita attiva, quindi camminare il più possibile per esempio andando a scuola a piedi, oppure parcheggiando più lontano, oppure scendendo una fermata prima dall’autobus, e far svolgere una regolare attività fisica per 60 minuti al giorno. 
Dott.ssa Cristiana Miglio
Biologa nutrizionista
Elicriso Psicologia e Riabilitazione


domenica 25 novembre 2012

LA DOLCE FERMEZZA DELLE REGOLE PER UN'EDUCAZIONE FORMATIVA


IL RUOLO DEI GENITORI
Le regole sono un importante strumento di rassicurazione e contenimento. Un bambino senza regole è un bambino confuso che non trova nei genitori un punto di riferimento ed è, quindi, facilmente influenzabile dalle sollecitazioni che vengono dall’esterno.
Le regole sono quindi necessarie per uno sviluppo sano ed equilibrato di un bambino, in quanto gli permettono di crescere con dei riferimenti precisi.
I genitori hanno il compito di agevolare la crescita e lo sviluppo dei propri figli preparandoli alla vita adulta. Questo si può raggiungere all’interno di un ambiente che soddisfi i bisogni fisici, emotivi ed educativi dei bambini.
Alcune caratteristiche come caparbietà, decisionalità e fermezza, possono diventare una risorsa se il bambino impara a discernere le situazioni e a decidere quando è il caso di lottare per ottenere qualcosa e quando invece non è il caso.
Il compito del genitore non è quindi di piegare la volontà del figlio, ma di incoraggiarla facendogli nello stesso tempo comprendere che non può sempre ottenere ciò che vuole. Perciò, non bisogna pretendere di farlo obbedire a degli ordini, ma bisogna fargli sperimentare che cosa accade quando acconsente e quando si oppone in modo che apprenda ad autocontrollarsi e a scegliere se obbedire o meno, consapevole delle conseguenze positive e negative delle sue scelte.
L’educazione impartita svolge un ruolo fondamentale nel determinare se un bambino diventerà un adulto sereno e forte. Un bambino che viene umiliato ogni volta che esprime la sua volontà diventerà una persona infelice, insicura e senza fiducia in se stesso.
Questo non vuol dire che non si debba intervenire per correggerlo quando il suo comportamento non è adeguato, ma bisogna trovare un approccio equilibrato. Non ci deve aspettare che il bambino obbedisca sempre e comunque, consapevoli che questo atteggiamento non è necessariamente una sfida all’autorità del genitore. Il bambino non sa ancora valutare le situazioni in cui è opportuno esercitare la propria volontà e quelle in cui invece non è il caso. Per farlo crescere sereno e sicuro di sé bisogna aiutarlo ad operare questo discernimento.
È importante, quindi, fissare in modo chiaro dei paletti, determinando le conseguenze di un comportamento adeguato e quelle di un comportamento che invece non lo è. Applicando questo metodo in maniera costante il bambino imparerà a ragionare, discernere e compiere le scelte giuste.
Ma se fondamentale è dare delle regole, ancora più importante è farlo con coerenza evitando di creare confusione con comportamenti contraddittori. Nell’impartire una regola, è quindi importante che un genitore, in maniera proporzionata all’età del bambino, motivi la ragione per cui ci si aspetta un determinato comportamento ma soprattutto è fondamentale che tale regola sia mantenuta con coerenza e soprattutto che ci sia accordo in entrambi i genitori.

Dott.ssa Suhail Zonza
Psicologa, Psicoterapeuta, Psicodiagnosta
Elicriso Psicologia e Riabilitazione

domenica 7 ottobre 2012

Il metodo Feuerstein


Il Metodo Feurstein è un metodo elaborato da Reuven Feuerstein, basato sulla teoria della modificabilità cognitiva secondo la quale è possibile, in qualsiasi individuo, attivare un processo di apprendimento e sviluppare le potenzialità cognitive ancora non espresse. Infatti, l’esperienza di apprendimento può provocare una modificazione cognitiva strutturale: il cervello è composto da miliardi di neuroni collegati tra loro e nel corso della vita il numero dei neuroni e le loro interconnessioni cambiano (plasticità neuronale), non solo in funzione di fattori biologici ma anche in base agli stimoli provenienti dall’ambiente (trasmissione culturale).
Il metodo Feuerstein è costituito da una serie di strumenti, quasi esclusivamente carta-matita, rivolti ad individui di varie fasce di età. I compiti proposti costituiscono un’occasione per attivare e sviluppare le funzioni cognitive carenti, attraverso il lavoro di riflessione cognitiva e metacognitiva effettuato dall’individuo nell’interazione con un mediatore opportunamente formato. Non è importante eseguire il compito correttamente e velocemente; qualsiasi comportamento è utilizzato dal mediatore per mettere a fuoco il ragionamento sottostante e per correggere le funzionalità cognitive carenti. Il metodo consiste, infatti, nel rendere consapevole l'individuo dei processi mentali che utilizza quando impara.
Questo metodo è stato uno dei primi approcci metacognitivi utilizzato in ambito educativo e riabilitativo ed attualmente, è diffuso a livello internazionale ed applicato in tutte le situazioni in cui è necessario favorire un incremento delle prestazioni individuali (vi sono delle applicazioni anche nelle aziende e nella terza età).

Dott.ssa Laura Franceschin
Psicologa
Elicriso Psicologia e Riabilitazione

venerdì 27 luglio 2012

La valutazione del danno biologico psichico: la consulenza tecnica dello psicologo




La consulenza tecnica dello psicologo è sempre più centrale, oggi, nella valutazione, a scopo risarcitorio, degli aspetti psichici del danno biologico.
Negli ultimi decenni, in Italia, la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo ha ricevuto importanti riconoscimenti in dottrina e in giurisprudenza. Dalle pronunce della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale (Corte Cost. sent. n. 184/1986, Cassazione Civile sent. n. 8827 e 8828 del 2003), emerge chiaramente come il diritto alla salute fisica e psichica e quello alla piena realizzazione della persona, nei vari ambiti in cui la vita si esplica, siano irrinunciabili.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 184 del 1986 ha riconosciuto la risarcibilità del danno biologico, inteso come lesione alla somma di funzioni non solo biologiche, ma anche socio-culturali ed estetiche; tale concetto comprende anche il danno psichico, con le ricadute negative che da esso possono derivare sui molteplici aspetti della persona.
La giurisprudenza ha posto quindi l’attenzione sulla necessità che all’interno dell’accertamento medico-legale del danno biologico non si trascuri la componente psichica, richiamando all’esigenza di valutare oltre alla sussistenza di danni biologici di tipo fisico anche eventuali lesioni riconoscibili in quanto manifestazioni psicopatologiche clinicamente significative, rilevabili con un adeguato esame diagnostico.
Inoltre, in seguito alle sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione sul danno esistenziale (n. 26972 e n. 26973 del 2008), ogni pregiudizio a carattere esistenziale relativo agli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, personali e soggettivi non comuni a tutti, dovrà essere accertato in termini psicologico-legali e non medico-legali. Infatti, la Cassazione afferma che il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza e che deve essere allegato e provato. A questo punto assumono ancora di più rilevanza le allegazioni, gli accertamenti medico-legali e quelli psicologico-forensi, sulla base dei quali il giudice possa accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato.
Sempre più si pone, pertanto, in rilievo, la centralità della consulenza tecnica dello psicologo per l’accertamento del danno psichico e per la valutazione dell’incidenza di tale danno sulla validità totale della persona che ha subito la lesione.
Lo psicologo chiamato a valutare l’eventuale presenza di un danno psichico deve redigere una relazione tecnica a corredo della documentazione indispensabile in sede risarcitoria, che integri la valutazione medico-legale.
In cosa consiste la valutazione
Lo psicologo, attraverso il colloquio clinico e la somministrazione di test psicodiagnostici, valuta:

  1. l’esistenza (o meno) del danno biologico di natura psichica;
  2. la diagnosi del tipo di danno dal punto di vista clinico;
  3. il nesso causale (o meno) tra evento scatenante e conseguenze e la qualifica di tale nesso (causale o concausale);
  4. la dimensione temporale: cioè se si tratti di un danno temporaneo e/o permanente;
  5. l’entità del danno subito e la sua espressione in termini quantitativi, riferita ad una percentuale di invalidità riportata dal soggetto rispetto ad un totale ideale di 100% di salute psichica, in modo da dare un parametro sul quale calcolare la liquidazione;
  6. la situazione del soggetto in termini qualitativi, in modo da dare al giudice una cornice più ampia che gli permetta, qualora adotti un sistema liquidatorio a punti flessibili o equitativo, di prendere in considerazione in modo più specifico ed adeguato il singolo caso;
  7. l’esclusione di una simulazione;
  8. la relazione tra danno subito ed altre eventuali voci di risarcimento (danno alla capacità lavorativa specifica, ecc.) e riferimento esplicito alla eventuale necessità e utilità di cure psicoterapeutiche da considerare ai fini del danno emergente;
  9. la presenza di un eventuale danno non patrimoniale con pregiudizio esistenziale e relativa quantificazione.


A conclusione della valutazione lo psicologo redige un’accurata relazione in cui vengono affrontati i seguenti punti:
  1. Incarico e quesito: a che titolo si è stati incaricati e da chi, dati del soggetto sottoposto a valutazione;
  2. Calendario delle operazioni: calendario dei colloqui e dei test
  3. Evento e analisi della documentazione: riassunto dell’evento, esame degli atti e dell’eventuale documentazione clinica;
  4. Fase clinico-diagnostica: anamnesi, sintomatologia lamentata e atteggiamento durante la valutazione, esposizione dei dati clinici emersi dai colloqui e dai test, diagnosi in termini clinici;
  5. Valutazione del danno: traduzione delle valutazioni cliniche rispetto ai punti chiave da analizzare, esistenza del danno, nesso causale, dimensione temporale, esclusione di simulazione;
  6. Conclusioni e quantificazione: entità del danno e quantificazione.


Gli ambiti in cui può essere chiesto un risarcimento per danno biologico psichico sono diversi, tra i quali:
  • Infortunistica Stradale
  • Infortunistica professionale
  • Danno da colpa professionale
  • Danno da wrongful life
  • Danno da Mobbing lavorativo, familiare e coniugale
  • Danno da Demansionamento
  • Danno ambientale
  • Tutela della Privacy – Bioetica
  • Maltrattamento e abuso su donne o minori
  • Danno alla Reputazione

Dott.ssa Suhail Zonza
Psicologa Psicoterapeuta 
Esperta in Psicologia Giuridica e Psicodiagnosi

sabato 23 giugno 2012

La terapia occupazionale e le strategie visive nelle disabilità intellettive e nei DGS



Lo scopo che ci poniamo, con qualsiasi bambino, è quello del raggiungimento della sua autonomia nelle varie aree del comportamento adattivo. Crescere significa anche in tutte le culture, maturare abilità che consentano al bambino di separarsi sia emotivamente, sia operativamente  dall’adulto ed essere partecipe attivo e responsabile del suo contesto di vita. Ciò vale anche nel caso del bambino disabile, il quale potrà maturare livelli di autonomia, dipendenti, da un lato dalle sue specifiche menomazioni e abilità, dall’altro dalla presenza nel suo contesto di facilitatori o barriere. Lo stesso ICF (il principale strumento di classificazione internazionale del funzionamento e della disabilità) sottolinea l’importanza dell’adattamento dell’ambiente come fattore essenziale per favorire lo sviluppo delle abilità e più in generale dell’autonomia. In questa idea, il ruolo delle strategie visive rappresentano a tutti gli effetti dei facilitatori in grado di favorire lo sviluppo dell’autonomia e con essa la partecipazione del soggetto.
È fondamentale, nell’utilizzo delle strategie visive, un lavoro mirato a casa, ed è altrettanto fondamentale che questo vada poi ad ampliarsi  a tutti i contesti in cui il bambino partecipa, compresa ovviamente la scuola. È necessario per comprende il significato delle strategie visive, fare una premessa di carattere metodologico a partire dal quale l’uso delle immagini assume significato.
Il terapista occupazionale, durante l’insegnamento delle varie fasi di un’attività, potrà offrire livelli di aiuto diversi (prompting) a seconda delle caratteristiche del bambino. Si è soliti distinguere, a riguardo, tra guida fisica, modelling, guide verbali e gestuali, tutte forme di aiuto classiche che prevedono, in maniera più o meno costante la presenza di un adulto, ponendosi sempre come obiettivo la riduzione graduale della propria guida (per esempio passaggio dalla guida fisica a quella verbale) fino alla sua scomparsa.
Gli interventi con strategie visive vanno ad inserirsi proprio in questo panorama di aiuto : come facilitazione all’apprendimento, e di aiuto pratico nella realtà di ogni giorno.
Già nei programmi tradizionali di insegnamento di abilità quotidiane è infatti presente l’uso di immagini che rappresentano prompt visivi. Questo, permette infatti il vantaggio  di non dipendere continuamente da colui che insegna, se non nella fase di familiarizzazione con lo strumento. In questo caso si parla anche di “auto-istruzione” sottolineando il potere di tali strumenti di dare istruzioni senza prevedere la presenza di una persona che “istruisce”all’infinito. In sostanza, l’aiuto visivo, inteso come autoistruzione prevede che il soggetto abbia a disposizione una sequenza di immagini (in verticale o in orizzontale) che lo guidino nelle varie fasi di esecuzione di un compito. Sia nel caso che il soggetto riesca dopo un po’ a interiorizzare la sequenza, sia che rimanga “dipendente” dall’aiuto visivo, in entrambi i casi sarà in grado di svolgere autonomamente un certo compito. È in fondo le stessa cosa che  capita a ciascuno di noi quando vogliamo preparare una torta secondo la ricetta della nonna : non abbiamo più  bisogno che la nonna ci faccia vedere come prepararla (modelling) o ci dica cosa dobbiamo fare (giuda verbale) ogni volta.
Un altro caso in cui gli aiuti visivi vengono previsti  sono  quelli per la “modificazione” di un certo oggetto che deve essere utilizzato nell’attività, per esempio l’aggiunta di un indicatore colorato sopra un miscelatore per facilitare la distinzione tra acqua calda e acqua fredda.
Oppure può essere difficile insegnare al bambino ad utilizzare il bagno per i propri bisogni; A volte il bambino non ha chiaro che il bagno è lo spazio della casa o della scuola che deve utilizzare, altre volte possono essere le caratteristiche fisiche del locale (il colore, la luminosità, gli odori) ad allontanare il bambino, altre ancora l’uso del gabinetto entra all’interno di complesse dinamiche relazionali che vanno affrontate anche con i genitori. Nel primo caso può essere utile contrassegnare con una foto o un disegno la porta del bagno e mostrare al bambino un’immagine identica prima di portarvelo a intervalli definiti. Può anche essere affiancata all’immagine del bagno quella di un rinforzo, un cibo, gioco o attività premio che il bambino  riceverà dopo aver usato il gabinetto. Nel caso in cui invece il bambino non abbia problemi ad entrare in bagno, può essere posto di fronte a lui uno schema visivo con la sequenza di immagini dell’attività.
Qualsiasi sequenza può essere costruita, su qualsiasi attività : vestirsi (con un aiuto limitato alle fasi di vestizione che richiedono abilità fino-motorie e di coordinazione occhio-mano più complesse come abbottonarsi, allacciarsi le scarpe), lavarsi i denti, prepararsi una merenda, attività connesse alla realtà scolastica come preparare lo zaino, oppure la visualizzazione dell’orario di lezione ed altro.
Le strategie visive possono essere messe a disposizione anche per le autonomie sociali come ad esempio la conoscenza del denaro o del concetto di tempo.
Non in ultimo, sono fondamentali per le abilità comunicative, stimolando il linguaggio, o permettendo comunque, in assenza di esso, una modalità comunicativa, o ancora possono funzionare anche nell’autonomia di lavoro, per nuovi apprendimenti ed esercizi cognitivi.
In questo articolo ci si è soffermati principalmente sulle autonomie personali, ma gli ausili visivi possono essere utili anche per altri tipi di autonomie, come per quelle sociali. Per approfondire meglio anche questo altro campo, sarà necessario un ulteriore articolo.

Dott.ssa Federica Tusoni
Terapista Occupazionale
Elicriso Psicologia e Riabilitazione

giovedì 7 giugno 2012

Il Vaginismo. La paura di amare e farsi amare.



Il vaginismo è un disturbo che impedisce alla donna di avere rapporti sessuali completi pur avendo una struttura anatomica senza problemi.
Il termine vaginismo fu coniato dal ginecologo americano Sims (1861); secondo la classificazione proposta dal DSM IV (Apa 2000), si intende “la ricorrente o persistente contrazione involontaria dei muscoli che circondano il terzo esterno della vagina quando si tenta la penetrazione vaginale con pene, dita, tamponi o speculum”. Questo non significa che la donna non abbia desiderio sessuale, ma ha difficoltà nei tentativi di penetrazione. Si parla di  vaginismo primario quando non c’è mai stata penetrazione, si parla di vaginismo secondario quando dopo un periodo di assenza di difficoltà, si inizia a manifestare il sintomo. 

Le Cause
Con l’affermarsi di nuove teorie psicopatologiche, sono emersi diversi punti di vista rispetto alle cause del Vaginismo. Ciò che accomuna le varie teorie è che il vaginismo si vede come un disturbo psicofisiologico, con elementi fobici risultanti da attuali o immaginarie esperienze negative con la sessualità/penetrazione e/o patologie organiche (Masters, Johnson, 1970). La paura e l’ansia rispetto alla penetrazione sono espresse in modo fisiologico attraverso lo spasmo involontario dei muscoli che caratterizza il vaginismo (Reissing et al., 1999).
La sessualità nel caso di vaginismo può essere associata a stimoli e pensieri negativi: una scarsa educazione sessuale, i tabù, un’ipervalutazione della verginità, le esperienze sessuali precoci negative o l’abuso, la paura del dolore, la violenza sessuale, una gravidanza indesiderata, o i rischi legati al concedersi ad un’altra persona, possono essere associati con la paura della penetrazione fino ad arrivare a strutturare una vera e propria fobia.

Il ruolo del Partner
L’esperienza clinica invita a soffermare l’attenzione sul ruolo del partner all’interno della coppia che presenta problemi di vaginismo. Da diversi studi (Simonelli et al., 2003; Graziottin 2003), si sono riscontrate alcune caratteristiche psicologiche ricorrenti nel partner della donna che presenta questo disturbo. L’uomo in genere, risulta essere poco interessato alla sessualità, non mette in discussione il sintomo della compagna attraverso richieste pressanti, e spesso è portatore egli stesso di una difficoltà sessuale (es. disturbo erettile, o eiaculazione precoce) che viene occultato dal vaginismo della donna.

Il trattamento
Durante l’anamnesi è molto importante inizialmente concentrare l’attenzione sulla durata e l’intensità del dolore; questa prima fase consente alle pazienti di esprimere il loro sentimento riguardo alla situazione che stanno vivendo, in una situazione protetta (setting) con una persona competente (sessuologo).
Molto spesso le donne affette da vaginismo ignorano la conoscenza anatomo-fisiologica dei genitali maschili e femminili e la fisiologia del rapporto sessuale ed è molto importante approfondire questo aspetto che apparentemente sembra di scarsa importanza.
Le tecniche comportamentali focalizzate ad una progressiva dilatazione vaginale, sono efficaci per aiutare la donna a sviluppare un controllo volontario dei muscoli della vagina, in modo da gestire consapevolmente lo spasmo che impedisce la penetrazione.
L’esplorazione dei genitali e la progressiva introduzione di un dito  e di un tampone interno, aiutano a fare esperienza della capacità della vagina di contenere senza dolore. Il coinvolgimento del partner avviene in un secondo momento. Il coito sarà l’obiettivo finale del trattamento. Durante il trattamento verranno approfonditi i problemi psicologici associati, quali senso di colpa, ansia del rapporto, sensazioni di inadeguatezza, e aspetti tecnici più specifici legati al rapporto sessuale stesso.
È molto importante far sottoporre la donna ad una visita ginecologica all’inizio dei colloqui perché aiuta ad escludere l’eventuale componente organica ed è importante per la donna verificare la sua adeguatezza fisica. In molti casi di vaginismo è presente l’illusione di poter risolvere da soli il disturbo in brevissimo tempo nonostante esso persista da molti mesi o da anni. Solo quando si abbandona questa convinzione e si prende coscienza che si ha bisogno di un aiuto qualificato è possibile guarire completamente dal vaginismo.

Dott. Michele Fois
Psicologo Psicoterapeuta
Consulente in sessuologia
Elicriso Psicologia e Riabilitazione


giovedì 31 maggio 2012

Che cos'è il gioco?



Panoramica sulla naturale forma d'espressione dell'infanzia: le origini, le implicazioni sociali, l'evoluzione in strumento di crescita e di terapia.

Cosa e perché giochiamo differisce a seconda del nostro punto di riferimento. Nessuna singola prospettiva è quella “giusta”. Nel definire questo termine, ci si trova di fronte a formule frequentemente incomplete o inesatte. Inoltre, il gioco appartiene alla dimensione sociale della persona, che è spesso difficile spiegare in termini logici.
Di seguito vengono riportati alcuni aspetti relativi al gioco dell'infanzia:
  • i bambini giocano indipendentemente dall’appartenenza culturale;
  • si gioca per il solo piacere di farlo. L’attività ludica è un obiettivo in se stessa e non è indirizzata a produrre niente;
  • giocare permette l'elaborazione e la comprensione sociale del bambino;
  • giocare fornisce un’opportunità per diventare più consapevole di sé attraverso l’interazione con il mondo circostante, per decentrarsi e guardare la situazione dal di fuori: “L’orsacchiotto di pezza ha bisogno di cibo, proprio come me”;
  • giocare significa sperimentare, conoscere, crescere;
  • giocare è la principale modalità che il bambino ha per esprimersi.

Come nasce il gioco?
Il gioco si fa con le persone e con gli oggetti.
Per giocare è necessario sviluppare abilità cognitive, motorie, linguistiche e, a sua volta, l'attività in sé è l'occasione in cui il bambino impara e potenzia queste competenze.
Il primo “oggetto” ludico è l’adulto. Il volto umano diventa ben presto ciò che maggiormente stimola le risposte del neonato, che interagisce con i genitori in un dialogo alternato.
In forme diverse, il ruolo della madre e del padre è fondamentale in questo percorso. Nella diade mamma-bambino, il piccolo inizia a scrutarne il volto, a sorridere, a rispondere al sorriso, dando vita ad un processo a spirale in cui le battute degli attori si modificano reciprocamente e gradualmente, fino ad una sempre maggiore sincronizzazione di questa prima forma ludica e di socializzazione. Il contatto di sguardi e le reazioni all'espressione del viso si collegano e coordinano, in un complesso ma infallibile processo, al tono muscolare, a emozioni, a vocalizzi, mobilitando l'integrazione di più canali sensoriali.
In questo dialogo, la madre introdurrà diversi oggetti, il bambino dimostrerà di poter guardare la mamma, l'oggetto e poi di nuovo la mamma, indicherà, comunicherà con suoni sempre più complessi.
Inizia la co-costruzione di significati emotivi socialmente condivisi, che si evolvono per tutto il resto della vita (intersoggettività).
Si sviluppano abilità quali l'orientamento verso uno stimolo nuovo, l'attenzione, l'alternanza dei turni, l'integrazione di diverse modalità sensoriali in nuove configurazioni.
Le esperienze di coppia servono poi per maturare scambi a tre (bambino-soggetto-oggetto). Prendono forma l'attenzione congiunta, l'imitazione, l'emozione e l'intenzione condivisa.
Contemporaneamente al processo descritto e attraverso di esso si sviluppa il gioco: prima con le persone vicine, poi con le parti del corpo, gli oggetti e infine con l'interazione tra oggetti e persone. Compaiono giochi di movimento/esercizio, sensomotori, organizzativi, simbolici e di finzione, infine si sviluppano attività sempre più sociali fino a trasformarsi in giochi di regole e di squadra.
Dal gioco inizia la capacità di padronanza della realtà e lo sviluppo di abilità, che serviranno in età adulta e nella vita quotidiana.
Gli elementi sociali e l'attività ludica si intrecciano e sovrappongono, partendo dal riconoscimento del viso, fino allo sviluppo del linguaggio e di competenze motorio-prassiche sempre più complesse, caratterizzando il nostro essere umani.
Giocare non è un modo di impiegare il tempo libero, ma una tappa insostituibile dello sviluppo dell'individuo.

Perché si usa il gioco in terapia?
L'intervento terapeutico in età evolutiva, soprattutto nell'area della neuropsicomotricità, è attuato attraverso il gioco.
Infatti, quest'ultimo rappresenta lo spazio espressivo del bambino, un ponte per il suo mondo, vi garantisce l'accesso e diviene un importante strumento di decodifica dello stesso, oltre che mezzo di comunicazione; inoltre, rappresenta la motivazione all’azione e al movimento, dunque alla sperimentazione.
Tutto ciò è utile ai fini dell'esplorazione dell’ambiente e dell’esercizio di numerose abilità, divenendo porta d’accesso alla conoscenza e quindi alla crescita dell’individuo nella sua globalità.
In terapia rappresenta la relazione col bambino e funge da sfondo e cornice per la riabilitazione di molte competenze, permettendo la funzione terapeutica di stimolazione e accompagnamento alla crescita.


Dott.ssa Serena Tedeschi
Terapista della Neuro e Psicomotricità dell'Età Evolutiva
Elicriso Psicologia e Riabilitazione