giovedì 31 maggio 2012

Che cos'è il gioco?



Panoramica sulla naturale forma d'espressione dell'infanzia: le origini, le implicazioni sociali, l'evoluzione in strumento di crescita e di terapia.

Cosa e perché giochiamo differisce a seconda del nostro punto di riferimento. Nessuna singola prospettiva è quella “giusta”. Nel definire questo termine, ci si trova di fronte a formule frequentemente incomplete o inesatte. Inoltre, il gioco appartiene alla dimensione sociale della persona, che è spesso difficile spiegare in termini logici.
Di seguito vengono riportati alcuni aspetti relativi al gioco dell'infanzia:
  • i bambini giocano indipendentemente dall’appartenenza culturale;
  • si gioca per il solo piacere di farlo. L’attività ludica è un obiettivo in se stessa e non è indirizzata a produrre niente;
  • giocare permette l'elaborazione e la comprensione sociale del bambino;
  • giocare fornisce un’opportunità per diventare più consapevole di sé attraverso l’interazione con il mondo circostante, per decentrarsi e guardare la situazione dal di fuori: “L’orsacchiotto di pezza ha bisogno di cibo, proprio come me”;
  • giocare significa sperimentare, conoscere, crescere;
  • giocare è la principale modalità che il bambino ha per esprimersi.

Come nasce il gioco?
Il gioco si fa con le persone e con gli oggetti.
Per giocare è necessario sviluppare abilità cognitive, motorie, linguistiche e, a sua volta, l'attività in sé è l'occasione in cui il bambino impara e potenzia queste competenze.
Il primo “oggetto” ludico è l’adulto. Il volto umano diventa ben presto ciò che maggiormente stimola le risposte del neonato, che interagisce con i genitori in un dialogo alternato.
In forme diverse, il ruolo della madre e del padre è fondamentale in questo percorso. Nella diade mamma-bambino, il piccolo inizia a scrutarne il volto, a sorridere, a rispondere al sorriso, dando vita ad un processo a spirale in cui le battute degli attori si modificano reciprocamente e gradualmente, fino ad una sempre maggiore sincronizzazione di questa prima forma ludica e di socializzazione. Il contatto di sguardi e le reazioni all'espressione del viso si collegano e coordinano, in un complesso ma infallibile processo, al tono muscolare, a emozioni, a vocalizzi, mobilitando l'integrazione di più canali sensoriali.
In questo dialogo, la madre introdurrà diversi oggetti, il bambino dimostrerà di poter guardare la mamma, l'oggetto e poi di nuovo la mamma, indicherà, comunicherà con suoni sempre più complessi.
Inizia la co-costruzione di significati emotivi socialmente condivisi, che si evolvono per tutto il resto della vita (intersoggettività).
Si sviluppano abilità quali l'orientamento verso uno stimolo nuovo, l'attenzione, l'alternanza dei turni, l'integrazione di diverse modalità sensoriali in nuove configurazioni.
Le esperienze di coppia servono poi per maturare scambi a tre (bambino-soggetto-oggetto). Prendono forma l'attenzione congiunta, l'imitazione, l'emozione e l'intenzione condivisa.
Contemporaneamente al processo descritto e attraverso di esso si sviluppa il gioco: prima con le persone vicine, poi con le parti del corpo, gli oggetti e infine con l'interazione tra oggetti e persone. Compaiono giochi di movimento/esercizio, sensomotori, organizzativi, simbolici e di finzione, infine si sviluppano attività sempre più sociali fino a trasformarsi in giochi di regole e di squadra.
Dal gioco inizia la capacità di padronanza della realtà e lo sviluppo di abilità, che serviranno in età adulta e nella vita quotidiana.
Gli elementi sociali e l'attività ludica si intrecciano e sovrappongono, partendo dal riconoscimento del viso, fino allo sviluppo del linguaggio e di competenze motorio-prassiche sempre più complesse, caratterizzando il nostro essere umani.
Giocare non è un modo di impiegare il tempo libero, ma una tappa insostituibile dello sviluppo dell'individuo.

Perché si usa il gioco in terapia?
L'intervento terapeutico in età evolutiva, soprattutto nell'area della neuropsicomotricità, è attuato attraverso il gioco.
Infatti, quest'ultimo rappresenta lo spazio espressivo del bambino, un ponte per il suo mondo, vi garantisce l'accesso e diviene un importante strumento di decodifica dello stesso, oltre che mezzo di comunicazione; inoltre, rappresenta la motivazione all’azione e al movimento, dunque alla sperimentazione.
Tutto ciò è utile ai fini dell'esplorazione dell’ambiente e dell’esercizio di numerose abilità, divenendo porta d’accesso alla conoscenza e quindi alla crescita dell’individuo nella sua globalità.
In terapia rappresenta la relazione col bambino e funge da sfondo e cornice per la riabilitazione di molte competenze, permettendo la funzione terapeutica di stimolazione e accompagnamento alla crescita.


Dott.ssa Serena Tedeschi
Terapista della Neuro e Psicomotricità dell'Età Evolutiva
Elicriso Psicologia e Riabilitazione

sabato 19 maggio 2012

Domande e Risposte su Alimentazione e Gravidanza: facciamo un pò di chiarezza!




  1.  Ora siamo in due, devo raddoppiare la mia razione di cibo?

Assolutamente no!
È sicuramente vero che durante la gravidanza il fabbisogno di nutrienti, come minerali, vitamine e proteine, aumenta notevolmente, ma questo non si traduce in un raddoppio delle calorie giornaliere necessarie. Ciò che bisogna fare è privilegiare la “qualità” piuttosto che la “quantità” degli alimenti.
In pratica, nei primi tre mesi di gravidanza non è necessario aumentare le calorie, mentre successivamente si richiede un aumento calorico che dipende dal peso della madre all’inizio della gravidanza. Normalmente il fabbisogno calorico aggiuntivo lo si può raggiungere semplicemente mangiando 1 frutto e un bicchiere di latte in più al giorno, oppure aumentando di circa 40 g la razione di pasta.

  1. Per coprire il mio fabbisogno proteico, devo mangiare carne tutti i giorni?
Falso!
Le proteine sono fondamentali per la costruzione degli organi e dei tessuti del nostro bambino. Esse si trovano in alimenti di origine animale: carne, pesce, uova e latte, ma anche in quelli di origine vegetale come cereali e legumi. Se è vero che le proteine animali sono più facilmente assorbibili dal nostro organismo, le proteine vegetali possono raggiungere la stessa qualità nutrizionale, se combinate in maniera corretta fra i vari cibi.
In pratica, per coprire il fabbisogno proteico in gravidanza:
·       carne magra (alternando bianca o rossa) 2-3 volte a settimana
·       pesce (privilegiando quelli di piccola taglia per evitare pericolo di contaminazioni da metalli pesanti) 3 volte a settimana
·       legumi uniti a cereali (pasta/riso/pane), 3 volte a settimana
·       latte e latticini 2-3 volte al giorno
Per precauzione è sempre bene assumere latte e derivati pastorizzati, cuocere bene carne, pesce e uova ed evitare gli insaccati e i salumi.

  1. Devo aumentare il consumo di alimenti che contengono calcio?
Vero!
Il fabbisogno di calcio in gravidanza aumenta e per quanto l’organismo si adatti incrementando la sua capacità di assorbirlo dagli alimenti, è comunque necessario introdurre le giuste quantità di questo minerale tramite la dieta.
Buone fonti di calcio sono soprattutto i latticini (latte pastorizzato, yogurt e formaggi, fra cui spicca il parmigiano reggiano), ma anche alcuni alimenti vegetali (per esempio legumi, cereali integrali, frutta secca, broccoli, fagiolini, finocchi), così come particolari acque minerali ricche di calcio.

  1. Devo ridurre il consumo di sale?
Falso
Durante la gravidanza il fabbisogno di sodio, il maggior costituente del sale, aumenta, perciò non c’è ragione di ridurre il consumo di sale ma neanche di aumentarlo. Normalmente il consumo di sale è superiore a quello di cui necessitiamo, in quanto esso è presente in molti alimenti industriali anche se noi non ce ne accorgiamo e quindi nella nostra quotidianità l’aggiunta di sale ai nostri piatti andrebbe limitata. Tuttavia l’apporto di sodio necessario in gravidanza viene soddisfatto da una alimentazione equilibrata, seguendo le stesse precauzioni che normalmente vanno seguite. Piuttosto, è importante utilizzare il sale iodato, per garantire anche il giusto apporto di iodio.

  1. Devo per forza assumere integratori?
Al medico l’ardua sentenza!
FERRO - Il fabbisogno di ferro in gravidanza raddoppia, ma per fortuna normalmente noi donne abbiamo un certo quantitativo di ferro di riserva. Inoltre anche la capacità di assunzione di ferro, così come quella di calcio, da parte del nostro organismo viene incrementata durante la gravidanza. Di conseguenza non sempre è necessario integrare l’alimentazione con ferro. Tuttavia le riserve di questo minerale devono essere strettamente controllate e se scendessero sotto la soglia minima sarà il medico a valutare la eventuale necessità di integrazione.
Per ridurre il rischio di cadere in carenze, è meglio consumare le giuste quantità dei seguenti alimenti, sia animali che vegetali: carne, uova, legumi, cereali integrali, verdure verdi. Un trucco per aumentare l’assorbimento di ferro è quello di consumare l’alimento con succo di limone o una spremuta di arancia, in quanto la vitamina C ne aumenta l’assorbimento.
MAGNESIO – anche il fabbisogno di magnesio aumenta in gravidanza e carenze di questo minerale possono provocare doglie premature. I sintomi più frequenti sono crampi a livello muscolare. Per un buon apporto di magnesio è importante consumare adeguate quantità di frutta secca, legumi, cereali integrali, carne e verdure.
ACIDO FOLICO – questa vitamina è fondamentale per l’adeguato sviluppo del feto e un adeguato apporto sembra essere importante per la prevenzione di malformazioni a carico del midollo spinale. Tali malformazioni avvengono soprattutto nella fase embrionale e perciò si consiglia di cominciare ad introdurre l’acido folico tramite integratori fin dal momento in cui si decide di fare un figlio. Buone fonti alimentari di questa vitamina sono comunque le verdure, i cereali integrali, i legumi e il tuorlo dell’uovo.
VITAMINE – Una corretta alimentazione in una donna sana è perfettamente in grado di supplire alla necessità di vitamine. Risulta pertanto inutile in queste condizioni l’utilizzo di integratori. Tuttavia esistono condizioni di carenze, accertate dai medici, in cui potrebbe rendersi necessaria una adeguata introduzione di preparati vitaminici.

  1. Devo evitare di consumare bevande alcooliche?
Vero!
L’alcool attraversa la placenta e può arrecare danni allo sviluppo del bambino. Inoltre la capacità di smaltimento di alcool da parte di un bambino durante la vita intrauterina è di gran lunga ridotta rispetto a quella dell’adulto, perciò anche quelle che per noi potrebbero essere piccole dosi di alcool, se assunte regolarmente potrebbero determinare accumuli dannosi nel corpicino del nostro piccolo. Per questo è consigliabile eliminare del tutto l’alcool durante la gravidanza.
  

  1. Devo eliminare totalmente la caffeina?
Falso!
Sicuramente è bene ridurre il consumo di caffeina in gravidanza ma l’assunzione di una o due tazzine di caffè al giorno non determina normalmente alcun pericolo per il nostro bambino.

  1. Devo sempre soddisfare le mie voglie?
Falso!
Contrariamente ad una credenza popolare molto comune, evitare di soddisfare le così-dette “voglie” non ha alcuna conseguenza né per la mamma né per il nascituro. Ricorda che i dolci sono fonte di grassi saturi e zuccheri e possono portare ad un aumento di peso eccessivo durante la gravidanza, così come gli insaccati, i formaggi e le salse da condimento. Seguendo una corretta alimentazione, anche il desiderio di questi cibi si abbassa, contribuendo alla salute del nostro bambino e al giusto mantenimento del peso della mamma.


Dott.ssa Cristiana Miglio
Biologo Nutrizionista e Consulente Alimentare
Elicriso Psicologia e Riabilitazione 


venerdì 18 maggio 2012

L’insuccesso scolastico




Di cosa parliamo?
Parliamo di un fenomeno silenzioso, ma preoccupante, che riguarda molti minori nel nostro paese, vale a dire l’insuccesso scolastico e che, al contrario di quanto si pensi, ha a che fare molto poco con l’equipe multidisciplinare che si occupa di disturbi di sviluppo e psicopatologici, ma molto con famiglia, scuola, istituzioni sociali.
Cos’è l’insuccesso scolastico?
Si tratta di uno spettro di situazioni che vanno dallo scarso impegno/motivazione scolastica con inevitabile ricaduta sulle prestazioni accademiche, che risultano ridotte o francamente inadeguate rispetto alla classe frequentata, fino alla bocciatura o all’abbandono scolastico.
Quali sono i numeri che descrivono l’insuccesso scolastico?
Ne esistono diversi, quelli più chiari riguardano lo spettro estremo cioè la fetta di dispersione scolastica, vale a dire la somma di bocciati e abbandoni scolastici.  L’ultima rilevazione sulla dispersione effettuata dal ministero, risale all’anno scolastico 2004/2005 e si contavano 2,9 “dispersi” su cento alunni alle scuole medie e 12,9 “dispersi”, sempre su cento, alla scuola superiore.
Nel 2011 la dispersione scolastica si è addirittura incrementata, perché si sono aggiunti gli abbandoni senza lasciare traccia - 0,2 per cento alla scuola media e 0,9 al superiore  la dispersione in generale è salita al 5,5 per cento alla media e al 14,9 al superiore per un totale di 434 mila studenti. Le percentuali medie di abbandoni sono comunque man mano diminuite dal 36,8 per cento calcolato per l'anno scolastico 1999/2000 fino al 31,7 dell’ultimo anno scolastico.
L’insuccesso da che cosa dipende?
Ci sono diverse condizioni che possono spiegare o solo associarsi più frequentemente all’insuccesso scolastico e sono di tipo sociale, culturale e/o mediche.
Tra le cause sociali e culturali vanno annoverate differenze in età evolutiva del potenziale accademico/cognitivo, del territorio, delle difficoltà d’integrazione, di sostenibilità economica e/o complessità dei nuclei familiari/delle relazioni interpersonali, soprattutto in alcune fasce di età.
La scuola, così come altre istituzioni preposte ad educare, spesso non favorisce un’identificazione corretta dei bambini precoci, e non promuove stili educativi personalizzati e non discriminanti, anche per bambini particolarmente talentuosi.
Ci sono dati importanti che riguardano la riuscita scolastica degli alunni stranieri: la forbice di insuccesso scolastico fra studenti italiani e quelli con altra cittadinanza, nella scuola primaria si è attestata al -1,2%; cresce invece il divario nelle scuole secondarie: dal -13,1% del 2002/03 si è giunti al -15,8% del 2008/09. Inoltre il 41% degli alunni stranieri si iscrive negli istituti professionali e il 39% in quelli tecnici.
I valori più bassi della dispersione nelle scuole medie statali si registrano al Nord (0,09%), mentre quelli più elevati si evidenziano nelle Isole (0,67%) e al Sud (0,55). La dispersione risulta più pesante negli istituti professionali (8,7%) e negli istituti d'arte (6%).
Il disagio giovanile è un fenomeno in crescita, le cui cause sono molteplici, in parte legate ai nuovi modelli di società, di relazioni interpersonali, di forme familiari e sembra incidere in molti abbandoni in scuole medie e superiori, che risultano maggiori in tutte le realtà-paese svantaggiate dal punto di vista sociale che economico.
Rispetto alle condizioni mediche annoveriamo soprattutto patologie neuropsichiatriche di vario tipo, quali: psicopatologie, disturbi di sviluppo, disturbi del comportamento.
Le patologie dello sviluppo responsabili di insuccesso sono: ritardo mentale, disturbo generalizzato dello sviluppo, DSA, ADHD, disturbo della coordinazione motoria (DCM).
Tra le psicopatologie: disturbo ansioso, depressione, psicosi, disturbo borderline di personalità.
Tra i disturbi del comportamento: disturbo della condotta, disturbo antisociale.
È importante valutare in qualsiasi disturbo neuropsichiatrico l'impatto psicologico ed emotivo che l'arrivo di una diagnosi di questo tipo può provocare in ciascuna famiglia e alunno.
Le convinzioni che lo studente e la famiglia hanno sull'intelligenza/capacità accademiche e adattive, sulla fiducia di sé, gli obiettivi dell'apprendimento (padronanza o prestazione) e le attribuzioni del proprio successo o insuccesso formano gli aspetti emotivo-motivazionali dell'apprendimento e sono importanti componenti in grado di stimolare e sostenere gli sforzi necessari per affrontare strategicamente lo studio o viceversa determinare un insuccesso scolastico.
Chi si occupa di insuccesso scolastico?
Si può comprendere che l’equipe multidisciplinare interviene solo in minima parte nell’affrontare l’insuccesso scolastico e per specifiche patologie neuropsichiatriche, pertanto non è corretto semplificare il problema dell’insuccesso con una patologia.
Gran parte dell’analisi del problema insuccesso può e deve essere fatto da famiglia, scuola, istituzioni territoriali con valenza socio-educativa.
Che si può fare a scuola?
Per la scuola va tenuto presente che per ogni alunno, tanto più se con insuccesso scolastico, bisognerebbe partire da un corretto profilo di chi apprende, che tenga conto di concetti come capacità-performance, deficit, relazioni di influenza, adattamento e che permetta di individuare un percorso di apprendimento senza errori che, possa potenziare o "ricostruire" le capacità emotivo-motivazionali dell’alunno, che non sono mai scontate, evitare un’impotenza appresa, favorendo meccanismi di autoregolazione, integrazione, autostima, che riducono la percezione di disagio rispetto all’insuccesso e permettono un percorso accademico efficace e soprattutto gratificante.

Dott.ssa Alessandra Corcelli
Medico Chirurgo
Specialista in Neuropsichiatria Infantile
Elicriso Psicologia e Riabilitazione

mercoledì 16 maggio 2012

Il ruolo del nutrizionista durante la gravidanza




La dieta materna influenza notevolmente il corretto sviluppo del feto e sempre più studi stanno mettendo in evidenza da ormai un paio di decenni il ruolo di “programming” che la nutrizione materna ha nei confronti del metabolismo del bambino, tanto che sembrerebbe che una alimentazione scorretta durante la gravidanza possa in qualche misura predisporre il figlio ad alterazioni metaboliche in età adulta.
Dunque, uno stretto controllo dell’aumento ponderale è ritenuto oggi di grande importanza non solo per evitare complicazioni durante la gestazione (diabete gestazionale, preeclampsia, etc.) e per evitare problemi alla nascita (difetto di crescita fetale, parto prematuro etc.), ma anche per garantire un corretto sviluppo del metabolismo del bambino.
Il ruolo del nutrizionista in questa fase è quello di fare un’attenta valutazione delle abitudini alimentari, elaborare un piano dietetico adatto alle esigenze della singola persona,  variandolo a seconda che si tratti di una mamma che è giunta alla gravidanza con un sovrappeso, in una condizione di normopeso oppure in uno stato di malnutrizione, eseguire il periodico controllo delle variazioni ponderali e rispondere in maniera semplice e chiara ai dubbi dei genitori.
Il nutrizionista quindi è particolarmente indicato nei casi di soggetti potenzialmente a rischio, come le mamme obese o sottopeso, oppure con patologie di varia natura (malattie autoimmuni, allergie, dismetabolismi, diabete), ma sicuramente anche per quelle donne sane che desiderano mantenere il giusto peso durante e dopo la gravidanza, nell’interesse personale e del proprio bambino. Molto importante infine è il giusto contatto fra nutrizionista e medico specialista, anche per l’eventuale valutazione della necessità di inserire nella dieta degli integratori alimentari.

Dott.ssa Cristiana Miglio
Biologo Nutrizionista e Consulente Alimentare
Elicriso Psicologia e Riabilitazione



domenica 6 maggio 2012

Mamma e papà si separano: e io?


Come comunicare la separazione ai bambini

La separazione dei genitori è indubbiamente un evento stressante e traumatico per i figli, per cui è evidente che, quando e se è possibile, sarebbe meglio evitar loro questa esperienza.  Ma ciò non può però significare che si deve stare insieme ad ogni costo.
È ormai assodato che è la conflittualità tra i genitori, più che la separazione in sé, a produrre effetti negativi sul benessere dei figli. I continui litigi fra i genitori possono costituire, infatti, un attacco all’identità del bambino. Quando, dopo aver fatto tutti i tentativi possibili, la coppia non riesce più a trovare un accordo, una separazione gestita bene è sicuramente meno negativa per i figli che assistere ai litigi quotidiani tra mamma e papà.
Quando due genitori si separano nel bambino si verifica uno sconvolgimento emotivo che richiede tempo e alcune attenzioni per essere “elaborato”. Le ricerche e gli studi dimostrano che, nonostante il dolore e la sofferenza iniziali, la maggior parte dei bambini recupera un completo benessere entro due anni dalla separazione. Ovviamente questo dipende dal modo in cui è stata gestita la separazione da parte dei genitori.
Le spiegazioni che i bambini si danno delle cose che accadono riflettono anche la loro conoscenza del mondo e i loro bisogni emotivi. Un bambino di 4 anni a cui non è stato detto della separazione, o è stata detta una mezza verità, può pensare di essere stato abbandonato dal genitore che non vive più in famiglia, che addirittura se ne è andato via perché lui non vale nulla. I bambini tendono a pensare che i genitori si separano per colpa loro, magari perché li hanno sentiti discutere sul loro comportamento scolastico, o su qualcos'altro che li riguardava.
Nei bambini vi è la paura latente di essere abbandonati e la separazione rende tangibile questa paura. L’intensità dell’emozione è massima quando vi è una forte conflittualità e non viene loro comunicata la decisione, né vengono rassicurati sul fatto che il genitore che lascia la residenza familiare continuerà comunque a vederli.
Molti bambini hanno fantasie di riunificazione che li spingono a fare dei tentativi per far tornare insieme i genitori, a volte anche creando le occasioni per un incontro combinando qualche guaio o andando male a scuola. Questo aspetto si complica quando la separazione non è accettata da uno dei due genitori e spesso, in questi casi, i bambini si fanno interpreti del desiderio del genitore di tornare con l’altro.
Per tutti questi motivi, e anche perché è ormai accertato che gli effetti peggiori si verificano proprio nei casi in cui i bambini non hanno una giusta comprensione degli avvenimenti, è necessario aiutare i propri figli ad avere una reale e corretta comprensione di ciò che sta accadendo.


Consigli:

·      Comunicare che i genitori si separano. È fondamentale comunicare ai figli ciò che sta accadendo e perché. Sarebbe meglio annunciare la decisione prima che venga messa in pratica evitando le  conferenze al vertice convocate con toni ufficiali ("mamma e papà vi devono parlare di una cosa importante") che risultano imbarazzanti e fonte di tensione per i bambini.

·      Essere chiari ma non dilungarsi. Parlarne con calma, con parole chiare e semplici senza accusare e, soprattutto, senza fornire dettagli inutili o angoscianti.

·      Dare la notizia insieme. La comunicazione andrebbe fatta possibilmente insieme, quando ci si sente sicuri della propria decisione e pronti a parlarne con serenità. Nel caso in cui non fosse possibile, bisogna spiegare che è una decisione presa di comune accordo.

·      Spiegare ai bambini che la separazione è frutto della decisione dei genitori. I genitori dovrebbero chiarire esplicitamente ai figli che la separazione è una questione loro, e che loro non hanno colpe né responsabilità.

·      Rassicurare i bambini che papà e mamma continueranno a prendersi cura di loro, anche se separatamente, che l’affetto di mamma e papà per loro resta immutato e che il genitore che si allontana da casa continuerà ad occuparsi di loro e li vedrà spesso.

·      Cercare di mantenere le abitudini fondamentali (orari dei pasti e del sonno, etc.) che, in particolare in momenti critici, costituiscono dei punti di riferimento, garantendo al bambino stabilità e continuità.

·      Stimolare i figli ad esprimere i propri sentimenti e i propri pensieri sulla separazione, in quanto possono essersi fatti idee sbagliate su quello che sta accadendo.

·      Rispondere alle domande dei figli, ma senza scendere troppo nei particolari ed evitando di incolpare l’altro coniuge, anche nel caso in cui ci siano chiare responsabilità.

·      Non coinvolgere e non strumentalizzare i figli cercando la loro alleanza o complicità contro l’altro genitore. Evitare di usarli come giudici chiedendo un’opinione su chi dei due abbia ragione o torto. Evitare di usarli come messaggeri, informatori o testimoni contro l’altro (ad esempio chiedendogli di raccontare tutto ciò che l’altro genitore detto dice o fa).

·      Evitare i cambiamenti di ruolo trasformando i figli in consolatori della mamma o del papà (magari anche concedendo loro di dormire nel lettone nel posto lasciato libero), facendo molta attenzione alle richieste affettive che gli si fanno e al ruolo che gli si chiede di ricoprire.

·      Non litigare in loro presenza, cercando di non alzare la voce e di non insultarsi reciprocamente.

·      Non demolire l’immagine dell’altro genitore, lasciando che i bambini nutrano lo stesso affetto per entrambi, evitando di screditare o svalutare l’ex partner.

·      Cercare i modi e i tempi più adatti per presentare un eventuale nuovo partner, evitando di ufficializzare la relazione immediatamente dopo la separazione e, soprattutto, senza presentarlo come futuro genitore e evitando confronti.

Dott.ssa Suhail Zonza
Psicologa Psicoterapeuta
Elicriso Psicologia e Riabilitazione





mercoledì 2 maggio 2012

Il tatto e il Contatto, Sviluppo e Legame



Il tatto è il nostro collegamento con il mondo. Noi possiamo vedere, ascoltare, pensare a qualcosa, ma è attraverso il tatto che questo qualcosa entra a far parte della nostra esperienza. La percezione del tatto e quella del movimento sono le prime a svilupparsi quando il feto nuota nel grembo materno. Prima dell’ottava settimana sebbene l’embrione sia più piccolo di un centimetro, la sensibilità della sua pelle è già molto sviluppata. I primi recettori sensoriali sono le membrane cellulari stesse che registrano il flusso del liquido che le attraversa e la pressione sulle loro pareti data dal movimento spontaneo della bambina/o che si gira e fluttua; in seguito l’ambiente in cui il feto è accolto si farà sempre più piccolo e le delicate carezze dell’utero materno si faranno sempre più forti fino a trasformarsi in quelle contrazioni che lo spingeranno fornendo una forte stimolazione alla pelle e al suo organismo.
La natura comincia il massaggio sul bambino ancor prima che lui nasca!
I neonati sono abituati alla stimolazione tattile data dal movimento all’interno del grembo materno ed è importante che dopo la nascita questa esperienza continui e si ripristino i ritmi organici che lui riconosce. In due gruppi di studi sono state comparate alcune madri: al primo gruppo era stato chiesto di tenere in braccio i propri bambini in un marsupio più a lungo rispetto alla durata delle poppate o dei pianti; al secondo appartenevano madri che invece tenevano in braccio i neonati normalmente. Dopo sei settimane i bambini che avevano ricevuto un contatto “extra” piangevano per la metà del tempo rispetto agli altri. La pelle è l’involucro esterno del sistema nervoso registra vibrazioni, pressione e temperatura, è la prima linea di difesa quando c’è fastidio e la prima linea di legame quando registra il piacere. Per il neonato è rassicurante riascoltare la vibrazione del battito cardiaco della madre e la temperatura del suo corpo che lo avvolge in un abbraccio. Il tocco di un genitore, la sua vicinanza attraverso l’esperienza sensoriale e l’interazione nutrono il legame affettivo. In un ambiente caldo e amorevole i neonati apprendono in modo naturale ed estrapolano tutte le informazioni di cui hanno bisogno. La sicurezza di base offerta da un buon legame genitore-figlio permette al bambino di proiettarsi verso il proprio mondo e di evolversi verso le sue piene potenzialità.

Roberta Bassani
Danza Terapeuta Esperta Massaggio infantile
Elicriso Psicologia e Riabilitazione

Studiare non basta... ci vuole un metodo! Imparare a studiare in modo strategico


Lo studio è un’abilità complessa che coinvolge diverse abilità cognitive (ad esempio l'attenzione, la lettura, la comprensione e la memoria) che insieme concorrono all‘apprendimento di nuove informazioni. Anderson (1979) definisce lo studio come un particolare tipo di apprendimento intenzionale che ha come scopo l’apprendere; l'attività di studio è intenzionale e gestita dallo studente che decide autonomamente di studiare, scegliendo obiettivi, tempi e strategie.
È  proprio questa componente intenzionale dello studio che pone la nostra attenzione su quello che  viene definito “metodo di studio”.
Il metodo di studio, infatti, è un insieme strutturato e coordinato di strategie che vengono utilizzate consapevolmente dallo studente; implica la consapevolezza di avere degli obiettivi di apprendimento e comporta la capacità di saper gestire la propria attività di studio e di conoscere e applicare le strategie efficaci per apprendere. Lo studio strategico, infatti, non coinvolge solo le abilità cognitive ma è in relazione con la metacognizione. Con il termine metacognizione ci si riferisce all’insieme delle attività psichiche che presiedono il funzionamento cognitivo durante la loro esecuzione. Le conoscenze metacognitive relative allo studio riguardano ad esempio ciò che lo studente pensa relativamente a se stesso come studente, agli obiettivi che si pone, alle abilità di studio e alla loro utilità, alle sue motivazioni ad apprendere, alle capacità di affrontare un compito specifico scegliendo le strategie da utilizzare, alla capacità di organizzarsi autonomamente nello studio, etc.
Le abilità di studio si sviluppano in relazione all'esperienza, scolastica e non, e si modificano nel tempo, ma le strategie per studiare possono essere anche insegnate! La scuola è il luogo privilegiato in cui si impara il metodo di studio ma, soprattutto nei casi di studenti in difficoltà, può essere effettuato un intervento, sia individuale che di gruppo, da parte degli psicologi che si occupano di apprendimento. Lo psicologo si pone l’obiettivo di identificare le singole caratteristiche dello studente, individuando i punti di forza e di debolezza, per progettare un intervento mirato sugli aspetti da potenziare e migliorare.
Numerose ricerche hanno evidenziato come possedere un buon metodo di studio sia di fondamentale importanza per la riuscita scolastica di ogni individuo (De Beni & Moè, 1997). Infatti, anche studenti con buone capacità cognitive che, per vari motivi, non sviluppano delle buone strategie di studio, possono avere un basso rendimento scolastico. Inoltre, per gli studenti con Disturbi dell’Apprendimento un buon metodo di studio può essere un valido strumento compensativo.

Dott.ssa Laura Franceschin
Psicologa
Elicriso Psicologia e Riabilitazione