giovedì 6 novembre 2014

Aspetti emotivo-motivazionali implicati nei Disturbi Specifici di Apprendimento



I bambini con disturbo specifico d’apprendimento, rispetto ai loro coetanei senza particolari difficoltà, hanno un concetto di sé più negativo, provano più ansia e hanno meno autostima, tendono a sentirsi meno responsabili del proprio apprendimento e ad abbandonare il compito alle proprie difficoltà. In alcuni casi questo dipende da una difficoltà nello sviluppare i processi di autoregolazione, in particolare un sistema interno di auto-ricompensa, per cui vi è da un lato la necessità da parte dell’operatore di introdurre rinforzi forti, dall’altro la presenza di una scarsa resistenza alla frustrazione.

Cosa sono le autoattribuzioni?
Sono le spiegazioni che una persona si dà per i propri risultati e si possono distinguere in interne (es. mi sono impegnato) o esterne (il compito era difficile), stabili (sono bravo) o instabili nel tempo (sono stato sfortunato), controllabili da sé (non mi sono impegnato anche se avrei potuto) o non controllabili (la maestra mi ha chiesto una cosa che non sapevo).
Le autoattribuzioni nei bambini con DSA potrebbero risultare problematiche, interferendo nel processo di apprendimento.

Gli stili attributivi
I bambini imparano fin da piccoli a darsi delle spiegazioni rispetto ai propri successi e insuccessi sviluppando col tempo una modalità tipica di reagire di fronte ad un risultato positivo o ad un insuccesso che viene definito “stile attributivo” che non è altro che il proprio modo di spiegare perché si riesce oppure no. Interessanti appaiono le caratteristiche di due stili in particolare: lo stile impotente e lo stile pedina.

Lo stile impotente
E’ quello di chi ritiene di “non essere portato” oppure di non possedere sufficienti capacità: di solito questo stile si sviluppa in seguito a ripetuti insuccessi attribuiti alla mancanza stabile di abilità. Bambini con questo stile tenderanno a cercare conferme alla loro idea di “non essere bravo” associata ad uno scarso impegno nella convinzione di non poter riuscire. Questo ritiro dall’impegno porterà ad ottenere realmente degli insuccessi che confermeranno l’attribuzione di mancanza di abilità. Nel caso si verifichi un successo questo verrà attribuito a cause esterne per cui non porterà ad un miglioramento dell’autostima, né servirà a scalfire la convinzione di “non essere portato”.
Cosa si può fare?
Con i bambini che presentano questo tipo di stile attributivo sarà importante modificare la convinzione di non potercela fare e ciò potrà avvenire facendo loro sperimentare dei successi e portandoli al tempo stesso a riconoscere quale causa degli stessi l’impegno strategico.

Lo stile pedina
Questo stile si sviluppa da un pensiero di tipo fatalista o magico secondo cui le cose vanno come devono andare, indipendente da quello che si fa e con quale impegno. Questo stile porta al poco impegno e di conseguenza all’insuccesso. Il bambino che ragiona secondo questa modalità non trae vantaggio né dai successi, che non rafforzeranno l’autostima, né dai fallimenti, che non insegneranno nulla circa le possibilità di migliorare in quanto non attribuiti a sé. Questo stile può portare alla demotivazione e al disinteresse, perché nulla viene visto sotto il proprio controllo.
Cosa si può fare?
A questi bambini andrebbero presentati dei compiti, ad esempio delle attività di studio, e la possibilità di affrontarli con le opportune strategie o senza. I bambini dovrebbero riconoscere l’importanza delle strategie, per gli effettivi risultati e per il senso di soddisfazione che possono provare. 

Dott.ssa Suhail Zonza
Psicologa Psicoterapeuta

mercoledì 5 novembre 2014

Che cos’è il Bisogno Educativo Speciale?




Che cos’è il Bisogno Educativo Speciale?
Il Bisogno Educativo Speciale rappresenta qualsiasi difficoltà evolutiva di funzionamento in ambito educativo e/o di apprendimento che necessita di educazione speciale individualizzata finalizzata all’inclusione.

Chi sono i Bes?
Sono tutti quegli alunni che hanno bisogno di una speciale attenzione nel loro percorso scolastico, ma che non avendo una certificazione di disabilità né di DSA, le due condizioni riconosciute dalla legge (la storica 104/92 e la recente 170/2010), fino ad oggi non potevano avere un piano didattico personalizzato, con obiettivi, strumenti e valutazioni pensati ad hoc per loro.
Nell’etichetta BES vengono inclusi, quindi, oltre agli alunni con disabilità e disturbi evolutivi specifici, anche tutti quei bambini non certificati che hanno bisogni educativi che richiedono risposte personalizzate a causa di svantaggi socio-economici, culturali e-o linguistici, emotivi etc.

Cosa dice la normativa?
La Direttiva MIUR del 27 Dicembre 2012 Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica” precisa il significato: “Ogni alunno, in continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta.” E ancora: “L’area dello svantaggio scolastico è molto più ampia di quella riferibile esplicitamente alla presenza di deficit. In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse”.

Come e chi deve individuare un alunno con BES?
In base ad una diagnosi
In questo caso la decisione è presa dal Consiglio di Classe partendo dalle informazioni fornite dalla famiglia attraverso una diagnosi o altra documentazione clinica.
Senza diagnosi
In questo caso la scuola si attiva autonomamente, con decisione del Consiglio di Classe partendo dai bisogni educativi emersi e dalla necessità di formalizzare un Percorso personalizzato. La famiglia deve essere ovviamente informata e coinvolta.

Quali sono i diritti degli alunni con BES?
Tutti gli alunni con BES hanno il diritto di avere accesso a una didattica individualizzata e personalizzata. Le strategie, le indicazioni operative, l’impostazione delle attività di lavoro, i criteri di valutazione degli apprendimenti e i criteri minimi attesi, trovano attuazione all’interno del PDPPiano Didattico Personalizzato dell’alunno.

La scuola deve o può stendere il PDP?
In tutti quei casi in cui è presente una diagnosi o altra documentazione clinica la scuola è obbligata e quindi DEVE  redigere il PDP. In tutti gli altri casi PUO’ farlo.

Attenzione!
La Direttiva del 27 dicembre 2012 estende a tutti gli studenti in difficoltà il diritto alla personalizzazione dell’apprendimento ma è necessario conoscere al meglio la normativa per evitare di medicalizzare dei semplici problemi educativi e di etichettare delle normali differenze individuali.

Dott.ssa Suhail Zonza
Psicologa Psicoterapeuta



giovedì 28 febbraio 2013

Disturbo specifico di Linguaggio: classificazione



Ognuno di noi, nel proprio percorso di vita, avrà certamente incontrato un bambino con difficoltà di linguaggio, ma fino a che punto ci rendiamo conto dell’importanza di un linguaggio pulito, chiaro e in linea con le tappe di sviluppo e quanto invece giustifichiamo alcune immaturità linguistiche come frutto di un eloquio da “piccolino” e per alcuni aspetti, anche molto buffo e divertente?
Se chiedessimo al bimbo in questione, di raccontarci cosa vede nell’immagine qui sopra e lui ci rispondesse:
 “ Un ba che doda toi dadi lida i dadi e i bo te doda to oso”
“Uno bambina dadi giocare dadi tirare uno bambino che orso gioca”
Oppure ci guardasse come stupito, senza rispondere e rivolgesse subito la sua attenzione verso altro.
Che cosa penseremmo realmente?
“E’ piccolino, svogliato ma presto parlerà e bene” oppure ci interrogheremmo sulla possibilità che possano esservi delle difficoltà a carico dei suoi sistemi linguistici, considereremmo quali implicazioni, queste difficoltà, possano avere nello sviluppo di competenze come la lettura e la scrittura e quali conseguenze ci siano per la sua sfera emotiva e sociale?

Il Disturbo di linguaggio (DL) rappresenta una tra le più frequenti difficoltà che si può riscontrare nello sviluppo dei bambini di età compresa tra i 2 e i 6 anni. Si stima che la diffusione di tale disturbo si aggiri intorno al 5% (Stark e Tallal, 1981).
Nell’ambito dei DL riconosciamo due macro categorie: i disturbi di linguaggio “secondari”, che si presentano in associazione a un disturbo di origine primaria (deficit neuromotori, cognitivi, sensoriali ecc.) e i Disturbi Specifici di Linguaggio (DSL) che non dipendono da altri deficit e si presentano con una compromissione specifica dell’abilità di linguaggio.

Vale a dire che i bambini, che presentano un DSL, possiedono:
  • udito nella norma;
  • non presentano evidenti problemi neurologici;
  • sono adeguati nei test di intelligenza non verbale;
  • presentano quoziente intellettivo nella norma;
  • non presentano difficoltà di tipo relazionale;
  • sono inseriti in un contesto socio-ambiente stimolante.
Nonostante i tratti che accomunano i bambini con DSL sono gli stessi in tutti i bambini, i profili linguistici e le espressioni di questo disturbo sono molteplici e variano di bambino in bambino.
Esistono diverse classificazioni del DSL, una delle più utilizzate viene formulata dall’ICD-10 e prevede la divisione in quattro sottoclassi. Nonostante ciò, questa classificazione, è un’eccessiva semplificazione nei confronti della pratica clinica, dove le espressioni del disturbo sono molteplici. Rapin e Allen (1988) attuano una divisione di derivazione neurolinguistica senz’altro più dettagliata e raggruppano il DSL in 6 sottocategorie. Utilizzando la loro tassonomia ci rimane facile descrivere più approfonditamente le espressioni del disturbo.
Il disordine che si osserva con maggior frequenza è la sindrome da Deficit fonologico-sintattico, in cui, il versante espressivo maggiormente coinvolto, è quello fonologico (organizzazione dei suoni nelle parole) e morfosintattico (organizzazione delle frasi complete di soggetto-verbo-oggetto-complementi); da questo differisce la sindrome da Deficit fonologico, da molti definito anche come Disordine Fonologico (Bortolini 1993) che vede coinvolto unicamente il canale fonologico. Riconosciamo poi la Sindrome lessicale-sintattica caratterizzata da problematiche ad accesso lessicale, quindi nella comprensione della frase dal punto di vista del significato delle frasi e del significato delle parole.
Le restanti tre categorie si riscontrano in condizioni più rare, Agnosie Verbali e Disprassia Verbale, o collegate a disorganizzazioni cognitivo affettive, come nella Sindrome semantica-pragmatica.

Adesso, se incontrassimo nuovamente il bambino di prima e lui ci dicesse in maniera convinta: “un ba che doda toi dadi lida i dadi e i bo te doda to oso”,  potreste ridere al buffo modo di parlare del piccolo, MA potreste anche pensare che si tratta di una difficoltà nell’organizzare fonologica dei suoni e se ci dicesse: “Uno bambina dadi giocare dadi tirare uno bambino che orso gioca”, potreste pensare che è ancora piccolino, MA anche che siete davanti ad una difficoltà di tipo morfosintattico e ancora, se il bambino non vi rispondesse, potreste pensare che è svogliato, MA anche che non abbia compreso la sintattica e il lessico della vostra frase.

In-Formare i genitori e tutte le figure che si occupano della crescita dei nostri bambini, sulle tappe di sviluppo del linguaggio e sulle possibili difficoltà comunicative e di linguaggio che possono presentarsi, li rende in grado di poter essere i primi, a riconoscere eventuali campanelli d’allarme per potersi rivolgere, poi, alle figure competenti in materia.
Essere attenti, attivi e responsabili nello sviluppo del linguaggio dei nostri bambini ci permette di garantirgli un sereno e valido evolversi di competenze superiori come quelle metafonologiche e di letto-scrittura.

Dott.ssa Viola Proietti
Logopedista
Elicriso Psicologia e Riabilitazione

lunedì 17 dicembre 2012

I BENEFICI DEL MASSAGGIO INFANTILE





Il Massaggio Infantile è frutto della fusione di diverse tecniche: massaggio indiano rilassante, massaggio svedese che favorisce il flusso sanguigno verso il cuore, riflessologia plantare e yoga. Si tratta di gesti semplici ed effettuabili da tutti che evocano le sensazioni cui è stato già sottoposto il neonato durante la gravidanza, quando era ancora sospeso nel liquido amniotico del ventre materno. Vimala McClure ha codificato delle tecniche in sequenza, ma poiché ogni bambino è unico queste tecniche possono essere adattate di caso in caso. Il massaggio è ugualmente utile sia che venga effettuato dalla madre sia da personale specializzato; naturalmente nel caso che a farlo siano i genitori, tra i benefici ci sarà anche un legame migliore nell’ambito della famiglia. Per questo motivo le associazioni che si occupano di massaggio infantile offrono corsi diversi per genitori o per diventare esperti e terapeuti.

Quali sono i benefici?
I benefici sul bambino riguardano il sollievo, principalmente da coliche e tutti quei dolori che coinvolgono il sistema gastrointestinale ancora immaturo, ma anche nei fastidi che compaiono durante il periodo della dentizione; il massaggio è di sostegno nei disturbi del ritmo sonno-veglia e aiuta il bambino a rilassarsi e affrontare con più sicurezza situazioni che provocano stress e inquietudine. Questa pratica aiuta inoltre le funzioni respiratorie, circolatorie e coinvolge la regolazione degli ormoni riducendo la produzione dell’ormone dello stress (cortisolo) e aumentando la prolattina, ormone che rilassa.
Gli effetti fisiologici sono in stretto legame con lo sviluppo psicologico, il contatto che si crea tra genitore e figlio durante l’esperienza del massaggio è un dialogo di amore e rispetto aiuta il bambino a costruire un’immagine di sé, sviluppa fiducia in se stesso e nell’altro.


Roberta Bassani
DanzaMovimento Terapeuta
Insegnante AIMI di Massaggio Infantle
Elicriso Psicologia e Riabilitazione

LE MAESTRE DICONO CHE SCRIVO MALE! Disgrafia: cos'è e come riconoscerla.



L'ingresso alla scuola elementare segna un momento importante per i bambini, di crescita e di cambiamento. Cambiano le insegnanti, talvolta i compagni, cambiano gli spazi e i tempi, ma soprattutto cambiano i compiti e le richieste: inizia l'apprendimento delle materie curriculari. L'attività che occuperà la maggior parte del tempo sarà la scrittura. Si chiederà ai bambini di scrivere sul quaderno o di copiare dalla lavagna, lettere, parole, frasi, testi, e di continuare a scrivere a casa per svolgere i compiti.
Ma cosa significa scrivere?
La scrittura è la rappresentazione grafica del linguaggio verbale, per mezzo di un sistema di segni detti grafemi.
Scrivere, soprattutto se in corsivo, viene considerato la naturale evoluzione del movimento umano, del quale conserva e rispecchia le caratteristiche di continuità e fluidità. Alcuni studiosi definiscono questa abilità, o più specificatamente la grafo-motricità, come una funzione applicata della psicomotricità (Tajan, 1982).
Dietro questo atto quotidiano, automatico e fluido, si nascondono processi molto più complessi, che operano in maniera sinergica. Alla base, si coordinano diverse competenze: di percezione visiva, di organizzazione ed integrazione spazio-temporale, di conoscenza e rappresentazione dello schema corporeo, di coordinazione motoria, di dominanza laterale, di memoria e attenzione.
Inoltre, per scrivere il bambino impara a controllare a più livelli l'arto superiore per la prensione dello strumento grafico, il corretto assetto posturale da mantenere, la modulazione della forza usata e della pressione impressa sul foglio, gli aspetti dimensionali e direzionali del tratto, nonché il ritmo della scrittura.
Che vuol dire scrivere male?
Scrivere male potrebbe essere sintomo di Disgrafia.
La Disgrafia è un disturbo correlato al linguaggio scritto, che riguarda le abilità esecutive della scrittura. È un Disturbo Specifico dell'Apprendimento (DSA) che si manifesta con difficoltà a riprodurre sia i segni alfabetici che quelli numerici. Questa difficoltà riguarda esclusivamente il grafismo e non le regole ortografiche e sintattiche che, nonostante tutto, potrebbero essere inficiate a causa della frequente difficoltà di rilettura e di autocorrezione.
Il disturbo della scrittura può essere evidenziato solo a partire dalla seconda elementare, quando l'apprendimento del codice scritto è dato per acquisito (Facecchia e al., 2011).
Chi sono i bambini disgrafici?
La disgrafia può avere diverse cause: difficoltà motorie, problemi linguistici e di lettura, problemi comportamentali (Ajuriaguerra e Auzias, 1975).
I principali manuali per la diagnosi e l'inquadramento del disturbo individuano alla base diversi aspetti disfunzionali: difficoltà esecutive; deficit negli ambiti dell'apprendimento, di tipo fonologico/lessicale/sintattico; l'associazione di più fattori che inficiano il processo di codifica della scrittura (Bertelli e Bilancia, 1996).
Altri studi dimostrano la relazione con il disturbo del movimento e il ruolo centrale di quest'ultimo (Hamstra-Bletz e Blote, 1993). A questi deficit spesso si sommano quelli di processamento visivo.
La prevalenza delle difficoltà di scrittura è stimata tra il 5% e il 25%.
I bambini disgrafici hanno un quoziente intellettivo nella norma, ma fanno molta fatica a scrivere e non amano questa attività. Presentano una scrittura molto irregolare e disomogenea per forma e dimensione dei grafemi, lenta e illeggibile; gli alunni disgrafici dimenticano il modo in cui vengono composte le lettere o utilizzano modalità non uniformi e atipiche per la composizione delle stesse. 
La postura del tronco, della testa e del braccio è alterata: spesso il gomito dell'arto impegnato nella funzione è sollevato dal piano di appoggio, mentre l'altro arto viene svincolato dal ruolo di supporto.
Si osservano, inoltre, uno scarso controllo dello spazio grafico e dei collegamenti tra i grafemi: la linea di scrittura può presentarsi orientata verso l'alto o verso il basso, lo spazio tra le lettere o le parole è frequentemente eccessivo o insufficiente, si evidenziano frequenti inversioni dei caratteri. Copiare alla lavagna potrebbe essere complesso, in quanto i compiti da tenere sotto controllo sono maggiori e si aggiunge la difficoltà di passare da un piano verticale ad un piano orizzontale continuamente.
Questi aspetti si discostano dalle usuali differenze stilistiche presenti tra gli alunni e determinano nei bambini un disagio nell'adattamento della vita quotidiana.
Quando è importante intervenire?
Nell'era della tecnologia, in cui qualsiasi supporto digitale permette la produzione di testi scritti con caratteri universali e leggibili, si sceglie di intervenire sulla disgrafia quando quest'ultima diventa un disagio nelle attività quotidiane e un ostacolo al processo di crescita. Inoltre, non vanno sottovalutate le implicazioni socio-emotive che essa comporta.
Gli obiettivi dell'intervento sono volti prima di tutto al recupero delle disfunzioni della scrittura e al sostegno dello sviluppo armonico del bambino. 
La sperimentazione continua di insuccesso porta il piccolo a sviluppare una scarsa autostima, che può scaturire in un disagio psicologico caratterizzato da manifestazioni socio-affettive quali inibizione, aggressività, atteggiamenti istrionici e in alcuni casi depressione. La disgrafia lo pone di fronte alla certezza della propria incompetenza, poiché la scrittura è l'aspetto più visibile dell'apprendimento. Spesso si sviluppa precocemente rifiuto per la scuola, contenitore del disturbo.
Dunque, appare importante individuare il bisogno di aiuto del bambino e la sua motivazione. Un intervento precoce permette una migliore efficacia del trattamento. Infatti, con il passare del tempo le modalità di scrittura possono diventare sempre più radicate e difficili da modificare.
La diagnosi di disgrafia viene effettuata tramite la collaborazione di diverse figure professionali (neuropsichiatra infantile, psicologo, terapista delle neuro e psicomotricità dell’età evolutiva) e la figura maggiormente indicata per il trattamento riabilitativo è il terapista delle neuro e psicomotricità dell’età evolutiva.
In ultima analisi, si sottolinea l'importanza della prevenzione e del ruolo di genitori ed insegnanti nell'individuazione dei fattori di rischio già nella scuola dell'infanzia.



Dott.ssa Serena Tedeschi
Terapista della Neuro e Psicomotricità dell'Età Evolutiva
Elicriso Psicologia e Riabilitazione


venerdì 14 dicembre 2012

I disturbi specifici dell'apprendimento (DSA)



Con il termine Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) ci si riferisce ad un gruppo eterogeneo di disturbi che si manifestano in età evolutiva con significative difficoltà nell’acquisizione di uno specifico dominio delle abilità scolastiche (scrittura, lettura e calcolo) in bambini con intelligenza nella norma. Si tratta solitamente di difficoltà che si manifestano nel bambino fin dalle prime fasi del suo apprendimento, quando deve acquisire nuove abilità partendo da un assetto neuropsicologico che non favorisce l'apprendimento automatico di queste specifiche abilità.

Secondo la Consensus Conference del 2011 vengono riconosciuti i seguenti DSA:
·    dislessia: disturbo di decodifica della lettura che riguarda difficoltà a leggere correttamente e/o velocemente ad alta voce.
·    disortografia: disturbo della scrittura che riguarda difficoltà nella codifica fonografica e nelle competenze ortograficche
·    disgrafia: disturbo della scrittura che riguarda difficoltà nell’aspetto grafo-motorio
·    discalculia: disturbo del calcolo che riguarda, a seconda dei casi, le abilità del sistema del numero (scrittura e lettura di numeri, conteggio, etc.)  e del calcolo (calcoli a mente, procedure delle operazioni, memorizzazione delle tabelline, etc.)

I DSA possono riguardare un ambito specifico ma nella pratica clinica è frequente incontrare l'associazione di più disturbi (ad esempio dislessia e disortografia); si tratta comunque di disturbi distinti, ognuno con le proprie caratteristiche.

La diagnosi di DSA non può essere effettuata prima della fine della seconda elementare (e nel caso della discalculia prima della fine della terza elementare), ma, se al termine del primo anno della scuola primaria di primo grado, un bambino presenta caratteristiche che possano far ipotizzare un possibile disturbo dell’apprendimento, è consigliabile portarlo in valutazione.
Infatti, l’individuazione precoce del disturbo, ed il conseguente intervento, cambia il percorso di apprendimento del bambino ed evita altri tipi di problematiche a livello emotivo e motivazionale a cui vanno incontro bambini con DSA.

I Disturbi Specifici dell'Apprendimento (DSA) rappresentano oggi un problema rilevante con cui si confrontano bambini, famiglie, educatori, pediatri e specialisti (neuropsichiatri, psicologi, logopedisti, terapisti della neuropsicomotiricità, etc.). Tali difficoltà sono largamente diffuse e sono spesso associate ad un severo disagio con risvolti emotivi, cognitivi e sociali importanti.
In Italia, i DSA hanno una prevalenza tra il 2,5 e il 3,5% della popolazione in età evolutiva (Consensus Conference, 2011) e sono ufficialmente riconosciuti da una legge (170/2010) che offre ai bambini che presentano tali disturbi maggiori garanzie per lo sviluppo delle loro potenzialità.


Dott.ssa Laura Franceschin
Psicologa
Elicriso Psicologia e Riabilitazione

Il Massaggio Infantile




Creare benessere, proteggere la salute, ma anche rafforzare il legame tra genitori e figli. Il Massaggio Infantile  non è solo una tecnica, ma anche un modo per comunicare basato sul tatto, che si può eseguire fin dai primi giorni di vita del neonato, e può continuare durante gli anni; inoltre è indicato anche per bambini con problemi di salute o bambini con bisogni speciali.

La scoperta e la diffusione del massaggio infantile in Occidente si deve alla passione e all’entusiasmo di una donna statunitense, Vimala McClure. In Italia fra le associazioni che se ne occupano vi è l’AIMI, l’Associazione Italiana Massaggio Infantile, fondata a Genova nel 1989, che fa parte dell’International Association Infant Massage (IAIM), l’organizzazione che riunisce varie associazioni nazionali presenti in diversi stati: Danimarca, Svezia, Quebec, USA, Canada, Germania, Spagna, Nuova Zelanda, Australia. La sede internazionale (IAIMI) si trova in Svezia dal 1994.

La storia
La donna che ha perfezionato e diffuso in Occidente le tecniche del massaggio infantile è una statunitense del Colorado, Vimala McClure, che ha appreso le modalità di questa tecnica durante un periodo di lavoro in un orfanotrofio in India. Nel 1976, tornata in America e in attesa del primo figlio, Vimala decide di studiare e approfondire questa pratica, perfezionandola alla nascita del bambino. Successivamente, pubblica il suo primo libro, “Infant Massage: a Handbook for Loving Parents”. Nel 1981, grazie alla californiana Audrey Downes, nasce l’International Association Infant Massage Instructors, e la pratica del massaggio infantile inizia a diffondersi nel mondo.
In Italia arriva grazie a Benedetta Costa, terapista della riabilitazione nel campo pediatrico, che nel 1983 negli Stati Uniti partecipa ai corsi per instructors tenuti da Vimala. Tornata in Italia introduce l’insegnamento del massaggio presso il Servizio di Fisioterapia e nell’Unità di Terapia Intensiva Neonatale dell’Ospedale Gaslini di Genova. Inizia anche ad organizzare corsi per operatori e, grazie all’aiuto di una trainer americana, Maria Mathias, forma i primi insegnanti a Genova e Bologna. I corsi Aimi si tengono in Italia regolarmente dal 1990.

I corsi per i genitori
I corsi, che si articolano in cinque incontri, approfondiscono diversi punti:
·       teoria e pratica del massaggio;
·       rilassamento del bambino;
·       discussione sul legame madre-padre-bambino;
·       comunicazione non-verbale;
·       come variare il massaggio durante la crescita del bambino;
·       trattamento di disturbi frequenti nella prima infanzia come stipsi, meteorismo, coliche addominali, il pianto;
·       il massaggio e il bambino prematuro, ospedalizzato, disabile, in adozione, in affidamento.
Vimala McClure introduce i genitori al massaggio del bambino, sottolineando da una parte la tradizione secolare di tale pratica in India e dall’altra come il tempo del massaggio sia potenzialmente promotore di una migliore relazione: luogo privilegiato di ascolto dei segnali del bambino e di comunicazione.
Le nostre mani non solo comunicano amore, tenerezza e calore, ma quando usate per massaggiare infondono sicurezza, voglia di vivere e benessere. Il classico “massaggio sulla bua” che una mamma fa al proprio figlio, per esempio, ha un preciso fondamento. Tiffany Field ricercatrice, coordinatrice di oltre 50 ricerche sul tatto presso l’unico centro mondiale che studia scientificamente la pelle come organo di senso il Miami Touch Research Institute , spiega che “Il contatto e la pressione favoriscono la produzione di endorfine, naturali soppressori del dolore”.
In un’epoca in cui l’educazione genitoriale oscilla tra paura di “viziare” toccando troppo (tenendo troppo in braccio) i propri figli e il desiderio di crescerli in fretta, così da renderli presto autonomi, gli studi di René Spitz, John Bowlby, Mary Ainsworth e Marshall H. Klaus, ben ci illuminano sullimportanza della formazione del legame e dello stile d’attaccamento nello sviluppo dell’individuo.
Scrive il dott. Roberto Rossigni Ricercatore Universitario del Istituto Clinico di Pediatria Preventiva e Neonatologia dell’Università di Bologna “Come pediatra credo che potrebbe essere molto gioioso, per voi genitori, provare a massaggiare vostro figlio. Se l’interazione tra voi e il vostro bambino sarà piacevole e il massaggio divertente per entrambi, offrirete molte possibilità di ascolto e di stimolazione che costituiranno una solida base di conoscenza e di crescita per il futuro del vostro cucciolo.”


Roberta Bassani
DanzaMovimento Terapeuta
Insegnante AIMI di Massaggio Infantle
Elicriso Psicologia e Riabilitazione